Paradosso italiano l'occupazione cresce a produttività no di Alfredo Recanatesi

Paradosso italiano l'occupazione cresce a produttività no COMPETITIVITA' E REDDITO PRO CAPITE Paradosso italiano l'occupazione cresce a produttività no Alfredo Recanatesi NELLA considerazione mediatica e popolare, l'occupazione è un valore di per sé, viene sempre accettata per buona e non si sta li ad interrogarsi, e tanto meno criticamente, su come si è prodotta. Va da sé, quindi, che tra i rari aspetti positivi dell'anno appena terminato l'aumento dei posti di lavoro (circa trecentomila) venga insistentemente evocato. È comprensibile che sia così in un Paese la cui storia è marcata dalla piaga della disoccupazione, tanto che la creazione o la difesa di posti di lavoro sono avvertite come priorità assolute, e persino un passepartout che funziona quasi sempre per far accettare nuove iniziative anche discutibili, o per difendere quelle esistenti anche contro buone ragioni di economicità o di ordinamento. Solo gli esempi dei giorni passati spaziano da Mediaset, che minaccia esuberi se Rete 4 sarà costretta ad essere diffusa solo via satellite, come è necessario per introdurre qualche dose di pluralismo nel sistema televisivo, ai gestori delle sale bingo, i quali hanno investito in imprese a dir poco avventate, ma solo per chiedere ora la estensione delle licenze a giochi anche d'azzardo sotto la minaccia, neanche a dirlo, di chiudere e licenziare tutti. I posti di lavoro che si continuano a creare, dunque, vengono considerati sempre e comunque come un successo politico, anche se le condizioni nelle quali si creano possono essere motivo, invece, di non poche perplessità dimostrando i rischi della politica economica che in materia si sta seguendo. Sotto il profilo sociale l'occupazione è un valore sempre positivo perché il disoccupato è un emarginato nel quale la condizione di assistito alimenta risentimento nei confronti della collettività in cui vive. Ma sotto il profilo economico non sempre lo è, come lascia intendere la singolare circostanza di questi anni nei quali l'occupazione cresce in presenza di unPil che cresce poco o non cresce affatto. È una circostanza singolare perché gli economisti sono concordi nel ritenere che solo una crescita superiore, al tre per cento possa produrre un aumento dei posti di lavoro dal momento che al disotto di quel livello l'incremento del reddito può essere conseguito con il normale progresso della produttività del lavoro e degli altri fattori della produzione. II paradosso è che la singolarità italiana non contraddice le asserzioni degli economisti. Le quali asserzioni si riferiscono ad un aumento del fabbisogno di lavoro indotto da un aumento della produzione; circostanza diversa da quella italiana di questi anni nei quali l'occupazione cresce, ma la produzione no e tanto meno, quindi, può crescere la domanda del fattore lavoro che, con tutta probabilità, sta addirittura diminuendo. Se ne deduce che l'aumento dell'occupazione non è dovuto ad un progresso dell'economia, ad un maggior fervore delle iniziative imprenditoriali, alla tensione verso nuovi traguardi di profittabilità e di benessere. È dovuto soltanto ad una redistribuzione del lavoro di cui l'economia ha bisogno tra un maggior numero di persone che così risultano statisticamente occupate. Lo «strumento» attraverso il quale ciò avviene è la tanto conclamata flessibilità, ossia i lavori atipici, i contratti di formazione, i part-time, i cococo, tutte quelle forme con le quali gli occupati mediamente vengono impiegati per minore tempo, per periodi saltuari ed, ovviamente, con una minore remunerazione in termini sia monetari che di tutele. Con il che rimane confermato che questa flessibilità non porta una maggiore produzione di ricchezza, ma solo una distribuzione più ampia del reddito ricavato da un prodotto sostanzialmente costante. Il beneficio sociale, si potrebbe dire solidaristico, è palese, ma c'è un costo economico. È dato da una riduzione della produttività del lavoro impiegato nel processo produttivo, con una correlata riduzione dei costi la quale consente la sopravvivenza di aziende che altrimenti verrebbero spazzate via dalla concorrenza, ma ad un livello più basso di imprenditorialità, di tecnologia, di qualità e, alla fine, di reddito pro-capite e dunque di benessere. Si potrebbe ritenere che sia sempre meglio di niente, ma non è così. Ed infatti, se la riduzione del reddito pro-capite è la soluzione politica e generalizzata al problema della competitività delle imprese, queste non avranno alcuna necessità di ricercare quella competitività in livelli più alti di funzione imprenditoriale, di capacità tecnologica, di impegno innovativo. Se si consente loro di sopravvivere senza progredire, perché dovrebbero impegnarsi per progredire? La storia dimostra che all'avanguardia del progresso materiale e civile sono i sistemi economici incalzati da costi delle prestazioni professionali e lavorative elevati. Sistemi economici diventati grandi e potenti attraverso politiche impostate sulla riduzione della produttività é sull'arretramento del reddito pro-capite non ci sono mai stati.

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