L'università degli stagni

L'università degli stagni I PECCATI CAPITALI DI UN'ISTITUZIONE ORMAI AL COLLASSO DIDATTICO L'università degli stagni Raffaele Simone IN un lungo articolo sull'università, uscito sul numero di gennaio 2003 della Rivista dei libri, Marco Santambrogio argomenta due o tre cose che vale la pena di discutere. Le illustro in estrema sintesi. 1. Le piccole e medie università sono destinate a svuotarsi. La causa di ciò, a quanto capisco, sta nel meccanismo dei concorsi per i professori. Non sto a spiegare questo meccanismo (che ai più riuscirebbe incomprensibile). Dico solo (concordando del tutto con Santambrogio) che esso finisce per favorire i candidati locali di un ateneo rispetto a quelli che provengono da altre sedi, anche se il candidato locale non è affatto il più bravo. Quindi, il professore bravo, respinto da un'università piccola o media, tenderà ad andarsene in una grande, che ha maggiori disponibilità di risorse. 2. Con queste migrazioni e con la scarsa propensione dei professori a rinnovarsi, la didattica rimarrà sprovvista delle forze migliori. Ciò danneggerà soprattutto la cosiddetta «laurea specialistica», il titolo di studio creato dalla riforma in vigore dall'anno scorso, alla quale non si potranno dedicare risorse di qualità. 3. L'università italiana, all'alba della riforma, è quindi destinata a «un futuro di mediocrità». Un modo per uscirne starebbe nel creare scuole di alto livello, a fianco (mi pare di capire) del sistema universitario o al di sopra di esso: si tratterebbe di «istituzioni nuove, non appesantite da un corpo docente vecchio e ormai non riformabile, apertamente meritocratiche e aperte al confronto internazionale». Questo, più o meno, il tenore dell'articolo. Santambrogio sembra collocare nel futuro la crisi a cui allude, quasi che questa fosse creata da eventi recenti come il nuovo sistema dei concorsi e la riforma Berlinguer-Zecchino. Credo che questa ipotesi sia imprecisa. L'università italiana è infatti da sempre in una stagnazione didattica e scientifica. Solo qual- che ipocrita finge di credere che quest'affermazione sia lesa maestà. Il nuovo quadro normativo non crea né favorisce questa crisi: si limita a non contrastarla. I motivi di questo stato sono complessi e remoti nel tempo. L'università italiana soffre di una gravissima crisi di govemance. Tutte le cariche sono elettive, quindi è impossibile prendere decisioni radicali o anche solo impopolari. Non si è mai visto un professore licenziato per assenteismo o un dipartimento chiuso per inefficienza. Eppure ce ne sarebbero. Ma chi ne avrebbe il coraggio? L'attività universitaria patisce di una annosa commistione con le professioni lucrose. Siamo uno dei pochi paesi al mondo in cui avvocati, notai, architetti o medici possano fare anche il professore universitario, magari a mille chilometri di distanza da casa propria. In parole povere, l'università è un lavoro a cui è possibile dedicare solo le briciole del proprio tempo: malora premunì. L'autonomia economica e finanziaria è insufficiente e quindi il ministero influenza pesantemente la vita degli atenei. Del resto, il loro funzionamento è sostenuto dalle tasse degli studenti per una quota irrisoria (non più del 1007o). Le relazioni inteme alla corporazione universitaria sono intrinsecamente consociative (e in molti casi corruttive) data la soffocante frequenza di occasioni elettorali in cui è indispensabile il sostegno dei colleghi più svariati. Mancano selezione e controllo di qualità, sia per i professori che per gli studenti. Salvo che per il terzo punto, questa lista sembrerebbe descrivere un'università liberista, con minimi controlli dall'alto e tutta tesa al risultato migliore. Questo è ahimè il contrario del vero! L'università italiana ha infatti un rating catastrofico quanto al rapporto tra laureati e immatricolati (si laureano più o meno 3 studenti su 10!) ed è troppo basso il numero degli iscritti rispetto a quello dei giovani diplomati. Non parliamo poi della qualità globale del professorato. A dispetto degli alti meriti di alcuni singoli e gruppi, la media dei professori è costituita da gente vecchiotta, svogliata e sprovvista di curriculum appropriato. Stando così le cose, che cosa paventa Santambrogio? Come può temere, ad esempio, che le lauree specialistiche nasceranno sofferenti, quando è tutto il sistema universitario che soffre? Bisognerebbe piuttosto guardare ai mali storici profondi del nostro sistema universitario, su cui molti versano lacrime di coccodrillo ma nessuno ha la forza di intervenire. L'appello finale a imprecisate «istituzioni nuove», orientate al merito, mi pare toccante ma non mi convince. simone@uniroma3.it ordinario Università Roma Tre autore dell'f/ruversitó dei tre tradimenti (Laterza 2000, ed. aggiornata) Studentesse in un'aula universitaria Siamo un paese in cui notai architetti e medici possono dedicare all'insegnamento le briciole delloro tempo

Persone citate: Berlinguer, Marco Santambrogio, Raffaele Simone, Santambrogio

Luoghi citati: Roma