BOSKOV «Vi racconto mio figlio Mancini» di Roberto Beccantini

BOSKOV «Vi racconto mio figlio Mancini» PARLA L'UOMO CHE PIÙ' DI OGNI ALTRO CONOSCE PREGI E DIFETTI DEL TECNICO EMERGENTE VINSERO LO SCUDETTO CON LA SAMPDORIA NEL '91 BOSKOV «Vi racconto mio figlio Mancini» Roberto Beccantini IN verità ti dico: Roberto Mancini è sempre stato allenatore. Per fargli fare quello che volevo, gli dicevo: fai quello che vuoi. Capito?» Capito. Al telefono da Ginevra, Vujadin Boskov racconta il suo Manolo e l'eterna parabola del tenore che si è fatto direttore d'orchestra. La Sampdoria di Paolo Mantovani, sei campionati insieme, dal 1986 al 1992: lo scudetto, due Coppe Italia, una Supercoppa di Lega, una Coppa delle Coppe, la finale di Coppa dei Campioni persa a Wembley, con il Barcellona, punizione ciclonica di Ronald Koeman nei supplementari, l'ultima di Vialli prima dell'avventura juvenlina. Boskov va per i 72, sbaglia chi lo considera una macchietta in funzione del suo lessico pittoresco, del suo italiano pietrificato, «Gullit è come cervo che esce di foresta», «la zona non fa spettacolo, brocco è brocco anche a zona». In quarant'anni di panchine ha vinto tre «scudetti»; Vojvodina (uno su due), Real Madrid (uno su ventotto), Sampdoria (uno su uno). «In Lazio non è facile lavorare, complimenti a Roberto. Io per lui ero padre, lui per me era figlio. Roberto: grandissimo. Vita privata era vita privata. Ma campo era campo: un professionista. Viveva di calcio. Non conosceva altro, non voleva altro. E non faceva nulla da solo, chiamava sempre Vialli e Vicrchowod». Che lingua, pero, e che faccia tosta. «Carattere. Personalità. Tecnico biavo sa distinguere. Robertomancini vedeva calcio con occhi da fuoriclasse. Vialli y Mancini. Li chiamavo cosi, alla spagnola. Lucavialli era nostro toro, caricava sempre, non si demoralizzava mai. Roberto sì che si demoralizzava. Un passaggio sbagliato, una sconfitta: un dramma, sempre. Cercava la perfezione: nei compagni, negli arbitri, in tutti. Per questo, a volte, faceva comizi, dava di fuori. Quante baruffe: lui comandava, ma ultima parola spettava a me». L'assistente di Boskov era, all'epoca. Narciso Pezzotti. Persona perbene, spalla ideale: «Era come fratello, rispettato e stimato. Vedi, Roberto y Luca proprio uguali non erano. Lucavialli era più prepotente. Giocava e ragionava col fisico: io sono Luca e tu chi sei? Roberto no, più posato, più preparalo psicologicamente al ruolo di dirigente. Una famiglia: ecco cos'era, allora, la Sampdoria. La nostra Sampdoria». E Vierchowod? «Il più individualista dei tre. Tipo: nessuno sa di calcio come me. Calcio, invece, non è matematica. Calcio è vita, semini e non raccogli, non semini e raccogli. Adesso che allena, forse avrà cambiato idea. Forse». E la storia che Mancini faceva la formazione? «Guarda. Solo pazzo poteva essere geloso. Spogliatoio nostro non era chiesa. Io preparavo partita, Vialli y Mancini facevano domande, ascoltavo domande e davo risposte. A volte facevano domande anche durante partita. A volte si rispondevano da soli. Tecnico è capo, non dittatore. Mancio: mai dato problemi. Parlava ai compagni. Non voleva distruggere morale. Quando alzava le due mani, o era arrabbiato o era triste. Come dite? Un libro stampato». Qgni tanto, però, mandava al diavolo anche il mister, non solo gli avversari o l'arbitro: «Se spogliatoio non è chiesa, allenatore non è prete e giocatori non sono chierichetti. E poi, per me, Robertomancini è dimagrito di cinque chili. Sissignore. Cinque chili. Con bilancia non si scherza». Sorpreso da come ha preso in pugno la Lazio? «No, per niente. Robertomancini conosce calcio come le sue tasche. Quando era in Sampdoria, sceglieva alberghi e cravatte di divisa sociale. Quando dico che conosce calcio, dico che conosce calciatori. Hai presente Corradi? Sembrava destinalo alla panchina dell'Inter. Voglio lui, ha detto: e ne ha fatto il Vialli della Lazio. L'occhio vuole sempre la sua parte. Difetti? Importante ò che non tratti tutti allo stesso modo. Non sono tutti uguali, i giocatori. E lui lo sa. Non è questione di privilegi, ma di feeling. Io mica trattavo Vialli y Mancini come trattavo gli altri. Al contrario: parlavo spesso con loro, mi fidavo, si fidavano. Chiedevo di più, concedevo di più. In ogni squadra nasce spontanea una gerarchia». Ci sarà pure un confine, un punto oltre il quale soltanto il tenico può spingersi? «Ci stavo arrivando. Non è segno di debolezza, coinvolgere il gruppo: è segno di intelligenza. Te lo dice uno che, in campo, non ha mai tirato indietro né gamba né lingua. Il confine c'è, come no. È questo: quelle di Vialli y Mancini erano opinioni, non decisioni. Mancini giocatore: opinioni. Mancini allenatore: decisioni. Tutto qui». Difetti, proprio nessuno? «Gli manca esperienza. Ma non è un difetto, è un fatto. Firenze è stata prova del fuoco. Lazio costituisce grande scommessa. Per me è positivo che grande squadra sia diretta da grande giocatore. Tattica non fa allenatore, tattica fanno i giocatori. Lazio è specchio di Robertomancini: gioca sempre per vincere, in casa e fuori. Si diverte. Roberto era completo al cento per cento. Lazio, non ancora. Lui avuto fortuna di trovare, dopo me, Eriksson. Un gentiluomo, non solo un professore di calcio. Io, piii caldo; Eriksson, più freddo; Mancio, metà e metà». Cosa può aver preso Mancini da Boskov? «L'ottimismo. L'idea di un calcio che non è guerra, ma sfida. Robertomancini ha questo di bello: non vive sul nome, e dei soldi che il nome gli ha dato. Vive di futuro. E se chiede tanto, è perché ha dato e dà tutto. In Sampdoria si lavorava due volte al giorno. Lui, sempre fra i primi a presentarsi. Altro che monello: era un modello. Solo che televisione mostrava sue sfuriate e la gente si faceva idea sbagliata. Ripeto: è uno che ha scelto calcio come bussola di vita, provino a dirgli "attento ai clan", si metterà a ridere. I clan ci sono sempre stati, in calcio, ma non sono loro i problemi. I problemi sono i piedi e le teste. La lingua viene dopo. Molti confondono ragazzi buoni con ragazzi bravi. A Roberto piace giocatore veloce: di testa e di piede. Tu non potevi lui dare ordini o ruolo fisso. Lui sapeva dove andare, quando dare palla a compagno, quando non darla. Lui, il più grande. Con Ulivieri e Bersellini, molti screzi. Con me, molti screzi finti. E se per cambio mi mandava a quel paese, la sera stessa - o, al massimo, la sera dopo - si andava a cena insieme. Scusa tanto: se figlio risponde male a padre, padre mica uccide figlio... Dai retta a vecchio saggio non ancora rincoglionito: perfino Padreterno avrebbe perdonato Robertomancini, perfino lui...» V » Vujadin Boskov (nella vignetta di Franco Bruna) è nato a Begea, Jugoslavia, 119 mangio 1931. Centrocampista talentuoso, aniva in Italia quasi trentenne arruolato dalla Sampdoria: stagione 1961-62, tredici presenze. Allenatore dal 1963, ha girato Svizzera, Jugoslavia, Olanda (dove ha pilotato Feyenoord e L'Aja, ma non l'Ajax), Spagna (Saragozza, Real Madrid, Sporting Gijon), Italia: Ascoli, Sampdoria, Roma, Napoli, ancora Sampdoria, Perugia A sinistra, Roberto Mancini è un fatto. Firenze è ova del fuoco. Lazio ce grande scommessa. Per sitivo che grande squadra tta da grande giocatore. non fa allenatore, tattica giocatori. Lazio è specchio rtomancini: gioca sempre cere, in casa e fuori. Si Roberto era completo al r cento. Lazio, non ancora. to fortuna di trovare, dopo ksson. Un gentiluomo, non professore di calcio. Io, piii riksson, più freddo; Manà e metà». può aver preso Mancini da ? «L'ottimismo. L'idea di io che non è guerra, ma Rbii h Vujadin Boskov (nella vignetta di Franco Bruna) è nato a Begea, Jugoslavia, 119 mangio 1931. Centrocampista talentuoso, aniva in Italia quasi trentenne arruolato dalla Sampdoria: stagione 1961-62, tredici presenze. Allenatore dal 1963, ha girato Svizzera, Jugoslavia, Olanda (dove ha pilotato Feyenoord e L'Aja, ma non l'Ajax), Spagna (Saragozza, Real Madrid, Sporting Gijon), Italia: Ascoli, Sampdoria, Roma, Napoli, ancora Sampdoria, Perugia A sinistra, Roberto Mancini «Ha dedicato la sua vita «Mi faceva domande al calcio, conosce tutto io davo risposte: spesso e già quando giocava si rispondeva da solo si sentiva allenatore» Modello, non monello»