"Teorico scontroso non un cospiratore" di Giorgio Romano

"Teorico scontroso non un cospiratore" Il Bertoli giudicato nel kibbutz israeliano "Teorico scontroso non un cospiratore" (Dal nostro inviato speciale) Tel Aviv, 20 maggio. Oggi sono andato al kibbutz Karmyiah (che in ebraico significa «la vigna del Signore») per parlare ancora coi suoi coloni, tanto l'immagine che mi avevano presentato di «Roberto» non corrispondeva a quella che recano i giornali italiani: condannato per delitti comuni, ricercato dalla polizia, detentore di armi e di esplosivo e via dicendo. Sono giunto prima di mezzogiorno e ho consumato il pasto alla mensa comune, accolto come un vecchio amico da Shelomo Barad, contento di vedere su La Stampa il suo nome e l'intervista che mi aveva concessa venerdì, ma al tempo stesso un po' più reticente e meno spontaneo, come se le molte visite dei giornalisti e persino le telefonate dall'estero avessero turbato l'equilibrio sereno della sua vita di lavoratore che non conosceva problemi e che ora stenta a credere all'esistenza di un mondo inammissibile come quello in cui l'episodio Bertoli lo ha condotto. Non era galante Mi siedo vicino a Denise Black, una ragazza carina, nata in Inghilterra, che mi racconta di aver consumato spesso i pasti con Roberto: «Era un uomo che non ti guardava nemmeno in faccia, che diceva buongiorno e buonasera e col quale non si poteva avere una conversazione». «Non aveva una ragazza? Non faceva mai la corte a nessuna?», le chiedo. «Mai, mai, mai. E l'ho trovato un po' strano da parte di un italiano, dato che voi avete la fama di essere molto galanti», ha aggiunto sorridendo. Notizie che mi ripete, quasi parola per parola, una volontaria che abitava in una casa adiacente a quella del Bertoli. Sono poi andato a parlare con Noah Schusterman, un argentino dì 40 anni che è in Israele ha diciotto ed è stato l'uomo che ha vissuto di più con Roberto, perché dirige il pollaio, che ha una produzione annua di tre milioni di uova. La sua descrizione coincide con quella degli altri, anzi, semmai, il ritratto che ne scaturisce è di un uomo più efficiente, preciso, maniaco della puntualità e ordinato. Divenuto così abile nel suo lavoro che nei periodi di assenza di Schusterman lo sostituiva anche per qualche settimana: «Era capace di collere improvvise, di cui subito si pentiva, per un nonnulla. Per esempio, per l'inettitudine di un lavoratore che aveva causato la rottura di un uovo o per la non puntualità della maestra di ebraico che lo aveva fatto aspettare per un quarto d'ora». Gli ho chiesto se avesse trovato qualcosa dì strano nel suo contegno e se parlasse del passato, se non cadesse mai in contraddizione. Mi ha risposto: «Sul suo passato era vago e restava sempre sulle generali; molto chiuso nei ptnv primi tempi, non era mai stato particolarmente loquace nemmeno con me, che passavo spesso otto ore al giorno con lui. Diceva di essere un anarchico e di avere partecipato a manifestazioni antifasciste e antimilitariste, ma sembrava un teorico, non certo un cospiratore». Diligente, perfezionista e molto ordinato, così come lo descrivono tutti. Ma la modestissima cameretta che abitava e che ho visitata, rivela assoluta trascuratezza e incuria da parte sua. Quando ho detto a Schusterman che il Bertoli aveva dichiarato in Italia di avere pensato di uccidere Golda Meir, è scoppiato a ridere: «Una volta è andato a Betlemme e, siccome è un mangiapreti, ha detto che avrebbe voluto incendiare chiesa e preti..., ma di essersene astenuto perché avrebbero dato la colpa agli ebrei, dei quali lo interessava la storia e dei quali, pur dichiarandosi ateo, voleva studiare la Bibbia». Mi ha confermato che il Bertoli ascoltava tutte le sere la radio in italiano e che, all'indomani dell'uccisione di Calabresi, ha detto: «Una carogna di meno». Ma avendo visto due giorni dopo in tv i funerali del commissario italiano, avrebbe esclamato: «Mi dispiace per la vedova e per i figli, rimasti senza appoggio». Anche dell'affare Feltrinelli ha parlato, esprimendo il parere che l'editore milanese non fosse rimasto vittima dell'esplosivo che portava con sé ma fosse stato ucciso dalla polizia. E' vero, odiava la polizia, ma una volta, tornando da Gerusalemme dove aveva assistito a una manifestazione delle pantere nere, aveva espresso apprezzamento per la maniera civile con cui i poliziotti avevano trattato i manifestanti, mentre diceva che in Italia avrebbero usato metodi altrimenti violenti. Per concludere, Schusterman ag¬ giunge: «Contraddizioni, sì, come ha ogni uomo, e forse un passato oscuro, ma qui ho sempre avuto l'impressione che si fosse rifatta un'esistenza e avesse una vita che gli era congeniale: quando sono venuti qui due turisti francesi, otto mesi fa, che si dicevano anarchici, egli stava poco con loro e li ha definiti delinquenti comuni, non anarchici». Doppia anima Ho controllato anche la faccenda del biglietto di viaggio: era effettivamente in possesso dì un biglietto di andata e ritorno per Marsiglia, della durata di un anno: per prorogarlo, il kibbutz gli ha dato alla scadenza, cioè un anno fa, la somma di circa 90 dollari necessaria per il rinnovo. Senza amici, senza contatti (è confermato che non ha mai ricevuto visite) senza occasione o voglia di allontanarsi dal kibbutz (forse in un anno è andato tre volte a Tel Aviv a vedere film italiani), l'immagine del «Roberto» di Karmyiah non riesce a combaciare in nessun tratto con quella dell'attentatore di Milano, né si capisce qui come possa avere avuto rapporti con estremisti. E a noi, osservatori lontani, turba soprattutto questa duplicità, questo insondabile aspetto di un essere umano. Un giornale della sera ha annunciato che sono stati eseguiti alcuni arresti collegati con la faccenda. Il portavoce della polizia me lo ha smentito, come smentisce l'arrivo in Israele di giudici inquirenti dall'Italia. Un'altra smentita riguarda Mohammed Mansor Saled, lo yemenita fermato a Venezia. La polizia esclude di averne segnalato il nome ai colleghi italiani: «Potrebbero averlo fatto i servizi segreti?». Mi hanno risposto: «Potrebbero...». Giorgio Romano