Così lanciavo scomuniche di Renato Mieli

Così lanciavo scomuniche Così lanciavo scomuniche (L'espulsione di Tito dal Cominform) A venticinque anni di distanza, il ricordo della « scomunica » di Tito, nella memoria di chi in quella vicenda si sentì in qualche modo coinvolto, appare curiosamente distorto. Ciò che dovrebbe essere l'aspetto più importante di esso — ossia come venne interpretata allora, quella scomunica — risulta vago e sfocato. Emerge invece con chiarezza un aspetto secondario di cronaca — ossia come quella notizia ci venne comunicata. Eppure, frugando tra i ricordi, vorrei ritrovare qualche cosa di diverso, che mi aiutasse a ricostruire il significato di quanto accadde allora. Per esempio, vorrei ristabilire con esattezza quali furono le motivazioni con cui, tra i diri genti e i funzionari del pei, si cercò di spiegare l'espulsione della Jugoslavia dal Cominform e fino a qual punto quelle spiegazioni apparvero veramente credibili. Ma per quanto mi sforzi non riesco a ricavare nulla di interessante da questa esplorazione del passato. Tornano alla mente le riunioni con cui si cercò di persuaderci che i dirigenti jugoslavi erano, per dirla con il linguaggio di allora, una « banda di avventurieri», e gli eroici tentativi, fatti nel nostro intimo, per crederci. Tornano a mente le faticose ricerche di documentazione per dimostrate che in Jugoslavia il partito comunista era stato, in fin dei conti, una truffa, giacché non si era nemmeno preoccupato di salvare le apparenze, dandosi delle pubbliche sedi o un minimo di organizzazioni su basi popolari. Avremmo dovuto stupirci e indignarci per tali scoperte. Invece eravamo tanto presi dallo zelo della denuncia di un così mostruoso tradimento da non provare se non un senso di sollievo ogni volta che riuscivamo ad accumulare nuove prove immaginarie a carico del regime di Tito. In un simile clima di farneticazione non poteva accadere nulla che lasciasse qualche traccia nella nostra memoria. Volevamo a tutti i costi dimostrare a noi stessi che i comunisti jugoslavi avevano fatto, per esempio, una riforma agraria per fìnta, lasciando immutata la struttura sociale nelle campagne. O che si erano dati alla caccia spietata degli intellettuali onesti, sottoposti alle più brutali repressioni poliziesche. Oppure, ancora, che avevano ridotto alla miseria il loro Paese. Nessuno ci dava retta, ma dovevamo convincercene; e per persuaderci eravamo costretti ad esasperare i capi di imputazione in un processo kafkiano, senza capo né coda. Una volta — ricordo — in una riunione di cellula mi toccò fare il pubblico accusatore del regime di Tito. Lo feci con molto impegno, raccogliendo tutta la documentazione disponibile di fonte sovietica. Ma non bastò, a quanto pare. Venni criticato perché, secondo hi mi ascoltava, non avevo tratto le dovute conclusioni, chiarendo il punto fondamentale della questione, e cioè che la Jugoslavia era diventata un Paese fascista. Di episodi come questi se ne potrebbero rievocare molti altri. Ma a che scopo? A dire forse fino a qual punto, all'interno del pei, si era disposti ad accettare la volontà di Sta lin, senza riserve mentali? O ad offrire a qualche studioso nuova materia per l'analisi di certi comportamenti collettivi? Tutto ciò non aggiungerebbe nulla a quanto è ormai risaputo sull'arrendevolezza dimostrata allora dal pei nel sottoscrivere, con tanto fervore, l'assurda scomunica decretata da Mosca. Il tempo, del resto, ha provveduto a fare svanire le tracce di quelle insensate farneticazioni. Curiosamente invece, ha mantenuto acceso, chissà perché, un lumicino: quello che mi ricorda il turbamento provato alla notizia della rottura con la Jugoslavia. Fu veramente un fulmine a ciel sereno. Nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Un Paese che, fino alla vigilia, era stato un esempio di purezza e di intransigenza rivoluzionaria, il primo della classe nella famiglia del Cominform, precipitava di colpo al gradino più basso dell'abiezione. Come mai non c'eravamo mai accorti di nulla prima di allora? Come mai, nemmeno tra i più informati dirigenti del pei, si era sospettata una simile degenerazione? Mistero. Ricordo perfettamente il trauma provocato da quella notizia, venticinque anni fa. Ero allora il direttore dell'edizione milanese de l'Unità e, come tale, ero al corrente di cinecogimzitiupfositeconunsuilqnLrcdpszbiIittitgcdmdsejscdAcrlpcznlapdf a r i a e a e i e o a e ciò che avveniva e maturava nel partito e nel movimento comunista internazionale. Ogni giorno, una telefonata da Roma mi dava le ultime informazioni sui principali avvenimenti politici. Quel giorno, con una procedura insolita e senza precedenti, invece della telefonata, ricevetti una strana visita. Un incaricato della segreteria del pei venne a trovarmi con un plico sigillato contenente — come mi disse — una comunicazione riservata da non rendere pubblica per nes sun motivo. Mi chiusi in stanza, aprii il plico e incominciai a leggere quella comunicazione: era l'annuncio della rottura con Tito Lo richiusi, assicurando Tinca ricato delle Botteghe Oscure che avevo preso conoscenza del contenuto segreto di quel plico e che mi sarei attenuto scrupolosamente alle disposizioni ricevute. Avrei cioè pubblicato la notizia, inviandola in tipografia all'ora stabilita. In attesa tornai a chiudermi in stanza, dopo aver avvertito la tipografia di tenersi pronta per pubblicare con rilievo in prima pagina un'importante comunicazione, che sarebbe giunta all'ultima ora. Intanto, mentre attendevo che venisse l'ora di liberarmi da quel penoso fardello comunicando la notizia alla redazione, venni colto da una seconda sorpresa. Questa volta era il telefono. Un compagno jugoslavo con il quale avevo stretti rapporti di amicizia, chiedeva all'improvviso di vedermi con la massima urgenza. Avrei dovuto far dire che non c'ero. Ma la centralinista, ignara di tutto, mi aveva passato la comunicazione sapendo appunto che eravamo vecchi amici. Mi toccò rispondergli, senza sapere che cosa dirgli. Che non volevo nemmeno ascoltarlo? Era impossibile. Mi feci animo e gli chiesi di spiegarmi per telefono perché voleva vedermi subito. Incauta mossa: mi disse francamente che voleva chiedermi di pubblicare un comunicato trasmessogli da Belgrado. «Cerca di capirmi — gli risposi — mettendoti al mio posto; non posso farlo». «Non lo capisco — replicò — noi pubblichiamo sui nostri giornali i comunicati del Cominform che ci mettono sotto accusa insieme con un nostro comunicato che confuta quelle accuse. Perché non fate altrettanto, anche voi?». Perché? Come giustificare un rifiuto aprioristico, quale quello che mi toccò opporre al mio interlocutore? Fu un momento molto penoso e umiliante per me. «Ma perché non vuoi nemmeno leggere il nostro comunicalo?» incalzò il compagno jugoslavo, incaricato dal suo governo e dal suo partito di svolgere quella inutile missione. A questo punto non c'era più nulla da dirsi. Difatti la nostra conversazione finì così e per quasi dieci anni finì anche la nostra amicizia. Quando finalmente ci siamo di nuovo incontrati, abbiamo cancellato, senza dirci più nulla, quel brutto ricordo del nostro passato. Però, in fondo, non riesco a dimenticarlo. Renato Mieli

Luoghi citati: Belgrado, Jugoslavia, Mosca, Roma