La barca di Vichy di Giovanni Bogliolo

La barca di Vichy L'ultimo, visionario Celine La barca di Vichy Louis-Ferdinand Celine: « Il castello dei rifugiati », Ed. Vallecchi, pag. 317, lire 3900. Malgrado il profondo ridimensionamento che ha subito nel volgere di pochi decenni, il caso Celine è ancora ben lontano dalla conclusione. 1 clamorosi peccati che l'uomo ha commesso e scontato continuano a pesare su un bilancio artistico che si è voluto coinvolgere nella più tragica avventura del nostro secolo c non può certo ancora aspirare alla tregua delle passioni e dei risentimenti. Anche quando la lettura è più distaccata, rimane, del tutto irrisolto, il nodo autobiografico, la troppo facile tentazione dei riscontri tra la vita e la pagina. Questo condizionamento vale naturalmente soprattutto per l'ultimo Celine: sulla grandezza del primo non si sono mai avanzate serie riserve mentre sui disgraziati libelli della lunga stagione antisemita la censura morale non può lasciare spazio per altri giudizi. Ma tutta l'opera pubblicata dopo il '52, vale a dire dopo il discusso condono e il ritorno in Francia dello scrittore, ha patito la morbosa attesa dei lettori, e le troppe curiosità che ha lasciato inappagate hanno pesato anche ingiustamente sulla clamorosa rentrée. Il passo obbligato per la reintegrazione Celine lo conosceva assai bene e si era anche disposto ad arrischiarlo: « Quando la sorte vi ha incastrato, non resta che passare alle confessioni »; ma la sua è stata una confessione reticente, lo scontroso e sprezzante proscritto ha deluso quanti lo aspettavano alla crudele prova delle ammissioni e delle ritrattazioni e tanto è bastato per stabilire che le colpe dell'uomo avevano irrimediabilmente ucciso il grande scrittore del Voyage, che negli ultimi libri si consumavano ormai pochi e patetici residui di quello che era stato uno straordinario fuoco creativo. Può essere perciò propizio il ritardo con cui arriva da noi uno dei più importanti documenti di quest'ultima fertilissima stagione celiniana, D'un chàteau l'autre, che, con qualche libertà, è stato ribattezzato « Il castello dei rifugiati »: una lettura per forza di cose meno polemica, lo stesso filtro della traduzione che la pagina di Celine soffre più d'ogni altra, possono in questo caso aiutare a chiarire qualche equivoco. Anzitutto quello della confessione: Celine non è stato ai patti, il suo libro è piuttosto una cronaca fantasiosa e grottesca, il diario verboso e squinternato di un'avventura falli mentare, nel quale l'essenziale viene sempre taciuto e l'autodifesa trascura di rintuzzare i capi d'accusa per dilungarsi nella mozione degli affetti e nel miserevole piagnisteo. Il lettore italiano di oggi è certamente meno disposto a rispondere a questa grossolana provocazione di quanto non lo fosse il let tore francese di quindici anni fa di fronte al « collabo » ap pena uscito dall'esilio e dalla galera. Quella che poteva sem brare fastidiosa tergiversazione o disperato sforzo di sopravvivenza acquista oggi autonomia e originalità artistica. Non che lo sforzo non si senta: le prime cento pagine sono una frastornante ed ossessiva lamentazione, un'imbarazzata parlerie in cui davvero si sente lo scrittore mimare disperatamente se stesso per rimandare quanto più possibile il momento dei ricordi: « Ripeto sempre le stesse cose?... accidenti!... nella stessa situazione, negli stessi pasticci, voi urlereste di qui a Enghìen!... per noi due, 10 e Lili, sono ormai quindici anni che si corre!... e dietro a noi la muta degli inseguitori!... quindici anni, è duro!... la leuloneria tanto feroce è durata tre anni, al massimo! ». Ma poi, di colpo, attraverso 11 velo di una visione febbrile — la barca di Caronte piena di vecchi petainisti —, il nodo del racconto si scioglie. Passato e presente continuano a mescolarsi, accomunati dalla stessa miseria e dalla stessa frustrazione, ma prende progressivamente rilievo l'incredibile adunata dei relitti del regime di Vichy che per qualche mese, dietro l'incalzare dell'armata Ledere, popolarono lo scenario medievale del castello di Siegmaringen. Solo la forza visionaria di Celine poteva ridare realtà a quei 1142 fantasmi: Pétain che muove dal castello per una passeggiata dal rituale faraonico, Lavai che continua a difendere la sua miope buona fede, Alphonse de Chàteaubriant armato della sua « bomba morale », l'assurdo treno imperiale che attraversa la Germania devastata, la chiassosa e affamata umanità che negli ultimi sussulti dsiIntiBdlanm«bpddaacgdpb1mgszsnzadmrrbtrr della resistenza fìsica e morale si polarizza attorno al castello. In frenetico movimento tra tutti, il dottor Celine con il gatto Bébert nella borsa e medicine di contrabbando nascoste sotto la fodera, indaffarato tra mille necessità e ossessionato da elementari bisogni e oscure paure: « La mia situazione era davvero bella!... Bagatclles, dovevo creparne... così era inteso a Londra, a Roma, o a Dakar... e dieci volte ancor più da noi, a Siegmaringen sul Danubio!... allora? se non ero ucciso gli è che facevo davvero il doppio gioco! ero partigiano?... agente degli Ebrei?... in ogni modo non potevo scamparla!... " Con i libri che ha scritto! inoltre i 1142 si attendevano una sorte migliore... dato che io avrei pagato per tutti! ». La concitazione, il caratteristico affanno della prosa incalzante e spezzata di Celine non sono mai la ripetizione meccanica delle straordinarie invenzioni della stagione più felice: a rappresentare un'umanità condannala e braccala, ad esprimere il sospetto, l'ira o la paura, il suo stile ritrova una prorompente vitalità, una sovrabbondante, barbarica forza. A tratti sembra una cortina di parole che offuschi e deformi la realtà, che ostentatamente la manipoli in un impasto grezzo e inappetibile. Ma è un gioco troppo scoperto per lasciare il sospetto della cattiva coscienza: quando la delusione e l'irritazione si sono dissolte, ci si accorge che la sostanza del libro non sta in quel goffo tentativo di autodifesa che vuol essere, che la deformazione e l'ellissi sono sempre state la regola di Celine, che la sua scrittura ha sempre risposto soprattutto alle sollecitazioni dell'abnorme c del grottesco. Allora la perorazione, l'autocommiserazione, la sprezzante riabilitazione non appaiono più il movente di questo « Castello dei rifugiati », ma un nuovo sconcertante oggetto di rappresentazione, la più recente e fastidiosa metamorfosi di quel personaggio autobiografico che è presente in tutta la sua opera. E se è arduo scoprire la linea di coerenza di queste metamorfosi, più facile può essere giustificare la loro disarmante rappresentazione: già al tempo di « Morte a credito » Celine aveva affermato che « l'essenziale non è sapere se si ha torto o ragione. La cosa è veramente senza importanza. Quel che conta è scoraggiare la gente che si occupa di voi ». Giovanni Bogliolo ldh Celine, nella caricatura di Levine (Copyright N. V. Rcvlew ol lìooks. Opera Mundi c pei l'Italia La Stampa)

Luoghi citati: Dakar, Francia, Germania, Italia, Londra, Roma