Tempo di balletti?

Tempo di balletti? Tempo di balletti? Solo in apparenza evasivo il romanzo di Della Corte Carlo Della Corte: « Le terre perse », Ed. Mondadori, pag. 182, lire 2500. La nostra narrativa sembra sempre più prendere la strada della favola, dell'invenzione fantastica o fantasiosa, della libera immaginazione. E', ancora una volta, come parecchi sospettano, la strada dell'evasione, del disimpegno e — rapportandola a certa temperie politica — della « restaurazione », o è una strada con sbocchi diversi? Quel sospetto, bisogna dirlo, è tutt'altro che infondato poiché nelle esperienze letterarie più recenti, sorte dalla crisi del neorealismo, dietro le sbandierate insegne dello sperimentalismo e dell'avanguardia c'è spesso un vuoto dì pensiero, una insensibilità alla vita e ai problemi essenziali d'oggi, una sfiducia nella semanticità della parola. E il formalismo — che a questo infine ci si riduce — è il terreno più atto alla proliferazione del qualunquismo, alla reintegrazione dell'arcadia. Fra i non pochi scrittori che quest'anno si sono cimentati in tale campo (di alcuni si è già qui parlato), una particolare attenzione mi pare che meriti Carlo Della Corte, con il romanzo Le terre perse. Veneziano, quarantenne, non è nuovo all'impresa, per avere precedentemente intonato qualche racconto o romanzo ad un humour verbalmente risentito, mescolante aulicità e dialetto, nella evocazione di un piccolo mondo fra rurale e cittadino, fra ritualmente cattolico ed esistenzialmente pagano, ricco di bellezze naturali, paesistiche, per quanto scarso di aperture mentali e d'animo. Questi motivi nel nuovo romanzo vengono ripresi con maggiore accortezza e misura, e ne è filo conduttore la ricerca che il protagonista, Giulio, un rentier di provincia, neghittoso e sensuale, va compiendo di un suo sconosciuto fratello (si tratta di un figlio illegittimo che il padre dovette avere, una decina d'anni avanti, da una contadina). Una ricerca che, se serve a dare un'illusione di scopo alla sua vita oziosa, umiliata più che confortata da un'amante infedele (Pentesilea, detta Silea) e da compagni di bagordi, dovrebbe mettere capo al ritrovamento di se stesso, alla scoperta dì quell'io che egli seguita e seguiterà ad ignorare nella sua vera essenza. Una vicenda fatta non tanto di azioni quanto di indugi su episodi o particolari di cronaca « ricostruiti » (il racconto è in terza persona) da una memoria lucidamente realistica e, insieme, ambiguamente allusiva; su orizzenti, colline ed acque di quest'antico angolo veneto, pieno d'incanto ma anche di richiami alla morte. Il cui pensiero spesso si personalizza in apparizioni, e sono i momenti di più intensa interiorità, in un contesto che l'intonazione umoresca spinge talora ai limiti del melodramma o dell'opera buffa. Ma proprio in questa sollecitazione sta l'insidia della maniera, la tentazione del « divertimento », di dare alla propria pagina la calibratura di uno spartito. Il fatto stesso che altri scrittori di questo « genere », come un Cancogni o un Siciliano, si siano ispirati a modi analoghi, teatrali, dell'operetta o del balletto, è rivelatore di un indirizzo, dì una moda. Con la differenza che, negli autori citati, quella soluzione corrisponde al carattere della materia trattata, mentre qui, nel Della Corte, il fondo è serio, più triste che ilare, e il comico, il buffo sono toni complementari; come certe battute da « commedia dell'arte », sebbene in linea con quella tradizione del teatro veneto, che ha esercitato su lui il suo influsso. Si ha, quindi, una serie di smagliature nella compattezza della narrazione; un che di marionettistico in figure nate come personaggi e recitanti un proprio dramma (come quella, assai, bella, del vecchio Sansone, ex-partigiano ed ex-custode di ville, che rivela il suo aberrante amore per un compagno ucciso dai tedeschi); ovvero la riduzione a macchietta di personaggi, appunto, da commedia, ma con una certa fun¬ zione emblematica (quali il parroco don Pilloni, confessore di Silea, e il vecchio notaio-ganimede alle prese con la navigatissima donna). Anche i nomi dei personaggi sono da opera buffa, e quelli di luogo di un infantile fiabesco e non di una allusività pregnante. Perché difetto primario del romanzo è l'impropria dosatura di realismo e di simbolismo: quello, talora, con l'aiuto del dialetto o del vocabolo desueto, di una corposità sboccata, questo spesso sofisticato fino all'astrazione. Il « genere », insommr, ha preso la mano al pur controllatissimo Della Corte: ma solo di rado intaccando il nucleo vivo della sua ispirazione, quella coscienza morale (si veda il bell'episodio della morte, da celebrante, del prete modernista scomunicato), che dall'ironia e dal sarcasmo sa innalzarsi a indignatio per i tempi e la società in cui viviamo, e farsi, all'occorrenza, lirica trepidazione. Arnaldo Bocelli

Persone citate: Arnaldo Bocelli, Cancogni, Carlo Della Corte, Della Corte, Pilloni, Sansone

Luoghi citati: Silea