Il punto d'arrivo è il quadro bianco di Marziano Bernardi

Il punto d'arrivo è il quadro bianco LE MOSTRE D'ARTE Il punto d'arrivo è il quadro bianco Sei pittori, in rappresentanza delle più avanzate correnti artistiche inglesi d'oggi Sei pittori inglesi di media età (il più anziano è sulla cinquantina, il più giovane è del '39), Bernard Cohen, Robyn Denny, John Hoyland, Malcolm Hughes, David Leverett, John Walker, dopo aver esposto il mese scorso a Verona, si presentano a Torino nella galleria «L'Approdo» di via Bogino 17. Di essi parla sul catalogo un critico «di punta», Maurizio Fagiolo; e Alessandro Mozzambani. Ma per una più completa comprensione di ciò che vedrà, suggeriremmo al visitatore la lettura di due altri testi: Correnti contemporanee della pittura inglese, di Enrico Crispolti, uno dei recenti «Mensili d'Arte» dei Fratelli Fabbri, in cui son citati il Cohen (però in una fase, ora superata, di astratti arabeschi in connessione con l'area «Pop»), il Denny come campione di una nuova astrazione «decorativa», l'Hoyland quale esponente di «nuove strutture di lirica modulabilità, secondo liberi movimenti anche biomorfici»; e La fotografia, di Ugo Mulas, adesso pubblicato postumo (Mulas, nato nel 1928, è morto lo scorso 2 marzo) da Einaudi a cura di Paolo Fossati (Torino, lire 4000), per quanto il fotografo-scrittore dice di Duchamp e di Fontana. Lo spettacolo di questi quadri entusiasmerà il tuffatore nelle «correnti contemporanee» sia inglesi sia d'altra nazionalità: il quale, beninteso, vorrà dimenticare quanto si propose l'azione pittorica «da Giotto a Chagall», per usare una limitazione temporale scelta da Lionello Venturi, ad indicare un modo di pensare e di fare pittoricamente nello spazio di sette secoli. E l'esperto nuotatore potrà persino fare a meno del salvagente che gli offre una critica del pari convinta: appunto quella del Fagiolo. Del resto, non è stabilito che nel nostro tempo il mondo abbia da ricominciare ex novo d'anno in anno, anzi di mese in mese? Senza addentrarci in un esame particolareggiato delle opere dei sei espositori, limitiamoci (davvero caso «limite») a dare un'idea di un quadro del Cohen. E' una vasta superficie rettangolare tutta uniformemente bianca, salvo due tondini lievemente colorati, grandi come una moneta da cento lire, nei due angoli superiori. Ed ecco il commento critico del Fagiolo: «Soltanto alla fine di un lungo lavoro, Cohen scopre il bianco». Viene in mente la famosa «scoperta» di se stesso, nel 1914 a Kairuan, di Klee: «Il colore... mi possiede per sempre, lo sento... io e il colore siamo tutt'uno. Sono pittore». Ma si trattava di «colore» rivelato dalla luce africana; ed è noto che il bianco, fisicamente parlando, non è un colore a sé, ma luce che risulta dalla sovrapposizione di tutti i colori. Torniamo al Cohen ed al suo quadro, che costa due milioni. Prosegue il commento: «La sua "Operazione Linguaggio" si richiama naturalmente a Malevic, ma la tabula-rasa è sempre il punto d'arrivo e non una partenza, è il risultato d'un lavoro e non un progetto». Cioè, se abbiamo ben capito, il Cohen divide la tela in tanti riquadri la cui vita cromatica «è data dal zampillamelo di un colore». «Questi tasselli non sono appunti coloristici ma ciò che rimane dopo aver ricoperto il riquadro, con il bianco a successive velature ». Sarà. Ma ci siamo accostati alla tela, l'abbiamo esaminata da vicino e, tolti i due suddetti tondini, non abbiamo visto che un bianco uniforme: insomma, l'effetto d'un lenzuolo disteso. Se questo è il «punto d'arrivo», si domanda che cosa abbia a che fare con la pittura. Scoperta del bianco attraverso una «operazione linguaggio»? Ma questo è un fatto personale (come in fondo lo fu il «sono pittore» di Klee). E a noi che guardiamo e non vediamo che un lenzuolo, non ce ne importa niente d'una tanto meditata (e costosa per l'eventuale acquirente del capolavoro) ricerca del nulla: intendiamo, il nulla pittorico. Dal più al meno i sei espositori si equivalgono: Denny — del quale i prezzi salgono alle stelle — divide a zone di differente forza tonale la superficie tinteggiata; Walker la arabesca con segni scattanti; Hoyland la tormenta espressionisticamente; Hughes la seziona in bande colorate al modo di Dorazio; Leverett, secondo il Fagiolo, col suo tracciato meccanico tende a «operazioni matematiche», «fa una analisi della sua stessa analisi, discorre sul Metodo». Tutti insieme compiono un lavoro che potrà interessare dei matematici, dei fisici, forse dei musici contrappuntistici, forse dei filosofi. Non interessa la pittura. Costituisce dunque nient'altro che uno dei mille, diecimila, centomila episodi della cosidetta cultura artistica contemporanea. Ma questi episodi, innocui senotolociSfomfaSsodfinagGchteri(mdTgsnzcdrdrctangvspm—adtdusmbflmvsC se isolati, fanno massa, creano il mito. Per esempio il mito di Duchamp (più in piccolo di Fontana), che il Fagiolo cita a proposito del Leverett. Si diceva, celiando, che non vi fossero al mondo due matematici capaci di spiegare la famosa formula di Einstein. Si potrebbe dire che non vi sono al mondo due pittori e due critici in grado di giustificare, con un discorso ragionato e non nebulosamente agiografico, la celebrità del Grand Verre di Marcel Duchamp, questo gigante dell'arte che nel colmo della fama rinunziò al lavoro artistico (ma è una leggenda) per dedicarsi al gioco degli scacchi. Tutti osannano, alle meravigliose vesti del sovrano, nessuno ardisce dire che il Re è nudo. Attendiamo l'esclamazione del fanciullino veritiero, come nella fiaba. Intanto si leggono le parole di Mulas su Duchamp: «...Un rifiuto del fare che è un modo nuovo di fare, di continuare un discorso». E poi: «Ho cercato di portarlo (con la fotografia) ad assumere degli atteggiamenti rivelatori del non fare, di quel silenzio che già in quegli anni tanto pesava sull'opera dei giovani artisti e oggi sembra pesare sempre più sul loro comportamento». Dunque il non fare — ed ecco il mito — diviene altrettanto, o più, importante del fare in arte; il silenzio al trettanto, o più, eloquente della parola. Immaginatevi una Divina Commedia non scritta. Che splendore! quale messaggio! E allora la tela bianca del Cohen è ben giustificata. Il collezionista accorto la paghi tranquillamente due milioni. Fra qualche anno ne varrà dieci. Noi siamo ottimisti. Marziano Bernardi

Luoghi citati: Torino, Verona