Juve da fascino slavo di Giovanni Arpino

Juve da fascino slavo Tra scudetto e Coppa, tavolata con Vycpalek, José e Morini Juve da fascino slavo Cestmir Vycpalek arriva spingendo in avanti una cravatta stracarica di scudetti color rossonero, strizza l'occhio anche se «Morgan» Morini, il nostro Fratello Branca, zoppica vistosamente sulle sue scarpette da ginnastica. «Se non si è imborghesito, non sarà certo il tallone o la pianta del piede a impedirgli di giocare a Belgrado», dice giudiziosamente il tecnico bianconero. «Se non scendessi in campo per una finale di Coppa Campioni, sarebbe il suicidio», sospira lo stopper. E subito si lancia in una fitta discussione con Bruno Bernardi. Argomenti rituali: come è venuto fuori quel tal pallone così tagliato, come ha tradito il piede d'appoggio, come hai tirato in porta in quella «quasi partita» contro la Reggiana (turno di Coppa Italia). Mangeremo due-raviolidue, con vino bianco gelato, mentre don José, brasilero ma rigido come un monaco, non andrà oltre tre pomodori e una mozzarella. Bisogna rivivere le vecchie emozioni del campionato (nulla svanisce rapidamente come nel football), bisogna discutere dell'Ajax e della Coppa. Una tavola rotonda, purché imbandita con piatti e bicchieri, è l'unica adatta. Ci siamo tutti, testimoni e protagonisti: non solo i tre juventini, ma Perucca e Bernardi che «amministrarono» la vittoria dei bianconeri a Roma, Giulio Accatino che seguì lo scivolone laziale a Napoli, e il sottoscritto, che si divise in due a Verona per stendere il necrologio del Milan e sottolineare lo scudetto torinese. Verona rimbomba come una lontana tempesta, ancora incredibile. Ma è proprio vero che Rocco disse? E' proprio vero che Rivera invece? Ma quel Mascetti sembrava Netzer oppure? Le domande fioccano come una grandinata, tra condimenti di stupore e di giusto omaggio al «calcio giocato», l'unico serio. Non posso dir tutto su Verona. Per esempio non posso entrare nei particolari di quella notte, con la città che sprigionava da chissà dove i suoi tifosi juventini, con i giudici del futuro «Premio Campiello» che discutevano di football anziché di romanzi. Leone Piccioni aveva costretto Carlo Bo ad una sosta forzata in un distributore di benzina per ascoltare «Tutto il calcio minuto per minuto», c'era Mario Soldati appena rientrato dall'America e già folle di Juventus, c'era Piovene racconsolato dalla salvezza del «suo» Vicenza. «Mentre io, a Roma, guardavo il tabellone elettronico e Quando sbirciai un quattro a uno per il Verona credetti che fossero saltati i transistor», ride José. Ribatte Vycpalek: «Prima della partita avevo detto: quando finisce, ragazzi, ci raccogliamo tutti insieme in un abbraccio sul campo». E gli risponde Altafini: «Ma non ha sentito cosa mormorò Cuccureddu. Disse: va bene, ma per un pianto generale. E invece proprio lui ha segnato il gol giusto». Si ride, si scherza, si torna su vecchi episodi, sullo smalto di questa Juve europea. L'Ajax è vicino ma anche lontano, sta ancora su una nuvola, magari da bombardare con razzi antigrandine. «Giocherai un tempo?», domanda con affettuosa perfidia Acca- tino a José, che proverbialmente risponde: «Un tempo giocavo». Intanto Bernardi e Morini stanno «marcandosi» a vicenda sui loro «test» professionali. E il Fratello Branca, dimentico nella sua serietà delle richieste femminili (pacchi di lettere che rivolgono appelli per magliette e mutande come ricordo) rammenta quei novanta minuti romani, cioè il vittorioso calvario di domenica scorsa: «Non riuscivo più a correre, a girarmi sui talloni. E vedo Scaratti che fila come un treno. Posso solo gridargli: ma che fai? Proprio adesso vi mettete a giocare, alla fine del campionato?» «Tutti hanno indicato la Roma come un colosso, rispetto alle prestazioni sciorinate durante l'anno», mormora Vycpalek: «Meglio così. Volete saperne una? Quando "Cuccù" ha segnato, non ho più percepito di essere a tre minuti dalla fine, credevo ci fosse da giocare almeno un quarto d'ora». Devo ritornare su Verona, allora, e consolarlo (si fa per dire) sull'ttandata in pallone» di critici, giocatori, allenatori, dirigenti. La panchina del Milan si è accorta dopo la partita di avere una mezza punta da gettare in campo col numero tredici. I dirigenti rossoneri e la loro corte bevvero champagne in tribuna prima del fischio d'inizio. Cose folli, cose che dimostrano come l'astrologica bellezza del nostro campionato non possa essere ceduta a nessun prezzo ad una Agatha Cristhie o a un Simenon. Questo è un «giallo» che si inventa da solo. Dal giallo al bianco, cioè all'Ajax. I suoi uomini ormai sono detti i «lancieri», come l'immagine di un detersivo omonimo. E se li lavassimo ancora più bianchi? è la battuta di rito. L'ttajaxologo» è Bruno Perucca, che in questa stagione li ha visti tre o quattro volte Vycpalek ha esaminato Cruyff e la sua banda durante Olanda-Spagna. Sono d'accordo su un elemento fondamentale: questa è una squadra che ha tutte le marce in regola, che sa cambiar registro fa gioco aereo e poi a terra, è imperniata su uomini che trottano a tutto campo, spedisce terzini a operare cross sulle ali, ha un libero, certo Blankenburg «made in Germany» che è uno scientifico «killer» (fece fuori subito Giubertoni nella finale con l'Inter, terrorizzò Jair, eppure i «bianchi», al massimo della forma, vinsero solo per due reti a zero, di cui la prima fu un autentico infortunio tra Bordon e Oriali). Accatino non transige: «In quest'annata Torino ha avuto tutto. Il Regio, la Rinascente, lo scudetto. La Coppa quindi è indispensabile». Sembra un proclama da maresciallo imperiale, ma risponde alla pura e semplice verità tifosa. «A Blankenburg dovrei pensarci io? Sono notissimo come un rompitore di ossa...», deglutisce Altafini. E socchiude gli occhi. In questo preciso momento mi ricorda un Augusto Manzo giovane. Sarà brasilero, sarà «carioca», sarà l'uomo condannato a far gol, sarà il personaggio di football al quale in questi giorni due quotidiani dedicano una pagina intera di «memorie» come se fosse Zapata o Richard Burton, ma proprio in quest'attimo don José mi sembra un uomo di Langa, di coloro che giocano a pallone elastico, mangiano bevono ridono trafficano sui mercati. E più di così proprio non posso dirgli. A meno che non vada in rete al «Maracanà» jugoslavo, un nome che dice tanto nel subconscio altaf inesco. Bruno Bernardi sta ancora medicando le sue coronarie reduci dall'Olimpico, Morini discetta sul suo piede, Perucca spiega come Cruyff tagli l'aria anche con il naso appuntito, Accatino dice peste di Salonicco e di un certo arbitro greco televisivamente franato in eurovisione, Vycpalek ascolta tutti e si crogiola tra il passato prossimo, così glorioso, e l'imminente mercoledì. José non perde un colpo: « Cerchiamo di vincere la partitella di domenica. Due punti jugoslavi fanno comodo ». Ripiglia il mazzo Vycpalek: «Ah, non dimentichiamo che domenica tre giugno dobbiamo essere a Bologna per la Coppa Italia. Se si vince a Belgrado, arrivederci dunque a Bologna al campo. Guai a chi si fa vedere prima». Ci voleva, questo incontro. Per decantare rabbie e patemi durati trenta domeniche, per predisporre un colloquio che da quest'oggi in avanti si fa ferreo, casca sulle facce di ognuno come la celata d'una armatura guerriera. Il football ha un'eternità costruita da traguardi incessanti. Ciò che è accaduto ieri è ormai statistica, ciò che deve succedere domani è un mazzo di speranze. Non dovevamo parlare di nulla, a questa «tavola rotonda» tra amici che talora si trattano con rude onestà, talora invece diventano complici perché l'obbiettivo non è nazionale, ma europeo. Ridono Vycpalek e José e Morini parlando di un loro conoscente olandese, un simpatico grassone che rotolandosi per terra dal godimento, ficcandosi le dita tra le gengive per soffocare singhiozzi d'ilarità, dice, anzi gli ha detto sul muso: «Vi offriremo due gol come aperitivo, a Belgrado. Poi vinceremo noi per sette a due. Chi marca il tizio? Quel vostro Furino?» E giù risate. «Chi marca il Caio? Il vostro Morini?». E giù altre risate. «Un buontempone, una cara persona», conclude Vycpalek: «Ma se proprio vogliono regalarci due gol come aperitivo, gli lasciamo anche tre ore di tempo per fare le loro sette reti. Giusto?». Giusto. L'avventura comincia. Il grassone olandese giura che l'Ajax deve ripetersi in Coppa proprio perché la Juventus è « più Europa ». Vedremo. La bellezza sta nell'incognita. José può sostituire il suo monastico pomodoro odierno con un golletto. Dopo gli offriremo una strippata di «charcuterie», quella che si nega da un secolo. A lui come ad ognuno dei suoi amici bianconeri, secondo le singole preferenze. Il conto, prego. Stiamo già facendo le valigie. La Juve va in fortezza alla ricerca del suo fascino slavo. L'assedio vedrà memorabili ricorsi storici, olio bollente, testuggini, arieti in corsa. A presto, Ajax. Giovanni Arpino La «tavola rotonda» tra Giovanni Arpino, Cestmir Vicpalek, José Altatini e Francesco Morini vista da Franco Bruna