Le faide di comune di Vittorio Gorresio

Le faide di comune CHE COSA NON FUNZIONA OGGI IN ITALIA Le faide di comune Il primo risultato della riforma regionale è stato quello di suscitare nella "sana, solida provincia" lotte tremende - Nel 1970, anticipando la retorica e il teppismo di Reggio Calabria, Pescara dichiarò guerra all'Aquila per contenderle il ruolo di capitale - Anni prima era insorta Sulmona, orgogliosa "città dei Peligni" Roma, maggio. La sana, solida provincia dove prevalgono il buon senso ed il realismo: è uno dei miti coltivati in Italia a guisa di contrapposizione delle virtù locali ignote ai più con la vana insipienza dei poten- ti del centro; ed è una fola priva di senso. Al modo stes- so che i cittadini hanno le istituzioni che si meritano, non è per caso che i provinciali soffrono il peso della metropoli: anche ad ammettere le imperfezioni « centripete » della riforma regionale, nessuno può negare che il suo primo risultato sia stato quello di suscitare nella periferia italiana tremende faide di comune. Ancora prima che si arrivasse all'assurda guerriglia di Reggio Calabria, nel giugno del 1970 la dannunziana Pescara aveva già dichiarato guerra all'Aquila per contenderle il ruolo di capitale della regione con argomenti di questo genere: mentre la vita fiorisce industriosa lungo il litorale adriatico abruzzese, le montagne dell'Aquila gravitano sul Lazio, ed i suoi circondari forniscono un elevato contingente di emigranti a Roma, sicché un Abruzzo aquilano sarebbe stato condannato a rimanere un parente povero dell'Urbe. Pescara, invece: con Pescara capitale l'Abruzzo finalmente poteva diventare abruzzese, capace di competere con le regioni attigue più fortunate, Marche e Puglie. Fisso a questo obbiettivo, il 23 giugno 1970 alle undici di sera il sindaco democristiano di Pescara, Giustino De Cecco, si mise a capo di un corteo di protesta diretto alla stazione. Andava sottobraccio con il vescovo monsignor Antonio Jannucci, e la stazione fu occupata, bloccati i binari fino alle quattro del mattino. Fortuna che era una bella notte già estiva, Sdraiati, i dimostranti si ab- beverarono alla letteratura del comitato apartitico « Pescara nostra » che aveva denunciato una losca congiura romana mirante a privare l'industre Pescara del titolo di capitale: « Abruzzesi, all'orizzonte della nascente regione si è levata una nube. Il vento della rinascita d'Abruzzo la spazzi via ». Boja chi molla La mattina dopo, di buon'ora, dall'aeroporto « Liberi » si levò un piccolo aeroplano da turismo, un « Fachiro » a quattro posti con a bordo tre giovani e cinquecentomila volantini gialli, rossi, verdi, tricolori, sui quali stava scritto: «Alla battaglia futura! Boja chi molla! Gabriele D'Annunzio ». Come si vede, a Ciccio Franco, più tardi leader di commandos a Reggio Calabria, non restò nulla da inventare, neppure slogans. Dissero infatti i tre giovanotti pescaresi di ritorno dal volo sull'Aquila: « E' stato un raid ispirato dal nostro divino Gabriele. Abbiamo " tenuto " il cielo dell'Aquila dalle 7,05 alle 7,35, a volo radente. Anche quelli che dormivano ancora si sono svegliati. Qualcuno nelle strade leggeva i volantini e poi alzava le braccia e ci faceva dei gestacci ». La sera fu occupato il municipio di Pescara e settecento agenti furono impiegati contro la folla. Pestarono duro, ma dal loro canto ebbero diciassette feriti. Il 29 giugno si fece il conto che alla stazione erano già state combattute cinque battaglie, e « forse stasera ci sarà la sesta», presagiva l'inviato di La Stampa Giampaolo Pausa che valutava i guerriglieri a mille o duemila, armati di randelli, tubolari di ferro riempiti di cemento, fionde per piccole biglie di piombo. Il questore Antonino Papale considerava da parte sua: « Sì, c'è qualche estremista di destra e di sinistra, ma la massa è accozzaglia amorfa, anonima, fatta di farabutti autentici ». Intanto, all'Aquila, un «Comitato cittadino d'azione» con dentro tutti, dai comunisti ai missini, teneva banco: « L'Aquila ha generato eroi, scrittori, poeti! Noi siamo parenti stretti di Fortebraccio da Montone. Chi era costui? Un valorosissimo condottiero del Duecento. Ricordatevelo, voi giornalisti del Nord: nelle nostre vene scorre il suo sangue. E pensando a lui penso a quel che faremo noi aquilani se ci verrà tolta la capitale. Era un condottiero che sapeva dirigere tutte le battaglie. Battaglie non con le molotov, si intende: sapeva vincere le battaglie morali ». Chi in questo modo perorava era Rodolfo De Simone, impiegato presso l'Ufficio leva. Egli spiegava che se Chieti vive dell'uva, Teramo delle mucche e Pescara dei traffici, L'Aquila vive degli uffici: « Attenzione: la corte d'appello, il commissariato agli usi civici, l'avvocatura distrettuale dello Stato, l'ufficio del riscontro amministrativo, l'ispettorato delle foreste, la delegazione della Corte dei conti, l'ufficio scolastico regionale, la ragioneria regionale dello Stato, il comitato per gli inquinamenti, l'ispettorato della XII zona delle guardie di pubblica sicurezza. Qui non c'è altro ». D'altro ed in più, come scrisse Giovanni Giovannini su La Stampa del 27 giugno 1970, c'era « il male della retorica nostrana. Se invece che di " capitali " si parlasse di "sedi delle amministrazioni regionali " forse si fornirebbe meno combustibile al divampare delle faide locali ». Cercando galloni Da noi difatti si va in cerca di galloni e distinzioni ostensibili, alla questua di onorificenze. Per la difesa di un decoro da spacciare in pubblico si sprecano straordinarie energie, come era accaduto anche a Sulmona nel febbraio del 1957. L'allora ministro della Difesa onorevole Paolo Emilio Taviani stava attuando un suo piano di riduzione dei distretti militari (da 98 a 46) e uno dei cinquantadue da sopprimere per economia oltre che per un ammodernamento meccanografico dei servizi era appunto quello di Sulmona, la « capitale dei Peligni »: e per questo Sulmona fece la sua guerra. I patrioti cittadini furono padroni della città per due giorni, eressero barricate di tronchi e spalmarono le strade con pece fusa per incollare al suolo i pneumatici delle camionette di polizia che venivano in rinforzo da Roma, Pescara e Senigallia. Ruppero vetri, sfondarono usci alla conquista di uffici pubblici, ferirono agenti di p. s., fecero falò di carteggi degli archìvi statali e comunali, vituperarono il sindaco liberale marchese Panfilo Mazara e presero in ostaggio il prefetto dell'Aquila, dottor Dante Morosi, capitato casualmente nella città dei Peligni per una visita di cortesia al vescovo di Valva e Sulmona monsignor Luciano Marcante. Finalmente cedettero davanti alle autoblindo ed ai cannoni semoventi del sopravvenuto 46" reggimento motocorazzato di fanteria. Le "mille cose" Non c'erano di mezzo né partiti né guerriglieri extraparlamentari: « Non sono i soliti agit-prop né i tecnici delle dimostrazioni a gremire le piazze, a fischiare; è la pacifica gente per bene che vota de, sono i borghesi », telefonò l'inviato di un giornale borghese di Roma, Il Tempo. Seguiva una legittima spiegazione: « Sulmona vive del distretto! Quanto la terra e l'iniziativa industriale hanno voluto negarle, l'aveva trovato nella prodigalità delle reclute che essa considerava come a Capri e a Sorrento si considerano i turisti. Non compravano scarpe di corda né mobiletti intarsiati e neanche fazzoletti souvenir, ma erano costantemente bisognosi di penne stilografiche, tubetti di dentifricio e di tutte quelle mille semplici cose che Sulmona poteva offrire in decorosa abbondanza »; tra l'altro, confettini di vari colori, durissimi e squisiti, con i quali si fanno anche fiori, alberi di Natale e presepi, maschere di carnevale e santi, Madonne e paladini. Detto di passaggio che il distretto di Sulmona era definito « glorioso » avendo esso antica giurisdizione su sessantacinque (fra i più miseri) comuni d'Italia, si potrebbe fare tutto un discorso circa i tipi di economia nell'Italia dei poveri. Ma questo è il luogo per indicarne piuttosto i riflessi psicologici, quali il sospetto che a Roma — « in alto » — si abbia sempre il proposito di mortificare la provincia: come accadde ad Isernia, dieci mesi dopo, quando corse la voce che il Senato della Repubblica avesse in animo di spregiare il Molise, poiché rinviava alle colende la creazione in loco di una seconda provincia, quella di Isernia, che sarebbe stata la novantatreesima in Italia. Fino dal 1953 la commissione di giustìzia di Palazzo Madama aveva dato parere favorevole, ma capitò al Senato di essere sciolto in anticipo a Pasqua dì quell'anno, come sanzione per la cattiva condotta tenuta dall'assemblea la domenica delle Palme nella votazione per la « legge truffa » elettorale politica. Ci fu chi vide nel provvedimento — preso da due settentrionali, Luigi Einaudi ed Alcide De Gasperi — nient'altro che l'appiglio per umiliare Isernia ed il Molise tutto, e ad ogni buon conto fu costituito un « Comitato pro-provincia », interpartitico, per l'opportuna vigilanza. Gli si strinsero attorno gli iserniati, « silenziosi, tenaci, pazienti, come è nel loro carattere e civico costume ». La legge pro-provincia fu poi approvata a Montecito¬ rio il 21 febbraio 1957 e dieci mesi dopo, il 12 dicembre, sarebbe dovuta passare a Palazzo Madama: ed invece il Senato ne rinviò ancora l'esame per associarlo a quello delle proposte per altre quattro province nuove (Melfi, Lanciano, Pordenone, Vibo Valentia). Di qui 10 scoppio d'ira degli iserniati. Il comitato pro-provincia si trasformò in comitato di agitazione (« Vi figurano i rappresentanti di tutti i partiti e perfino l'azione cattolica, i coltivatori diretti, la Cisl », lessi sul Tempo; essendosi posto la domanda: « Chi ci garantisce che anche questa volta non si giunga ad uno scioglimento anticipato del Senato? Venerdì prossimo, 20 dicembre, cominciano le vacanze di Natale e Capodanno, le Camere si riaprono il 19 gennaio, e chi lo sa che cosa ci riserva 11 futuro? ». Ma non ci fu rivolta, diversamente che a Pescara, all'Aquila e a Sulmona. Con ben più grande dignità, Isernia prese soltanto l'aspetto di « città dolente », come scrissero dantescamente gli inviati dei quotidiani: « Stasera è ancora una sera di lutto nelle strade deserte, con i negozi chiusi proprio nelle ore in cui le vie si affollano. Rari passanti sfiorano i muri quasi rabbrividendo di freddo e forse di paura. Paura di che? Non c'è nulla, intorno, che turbi, se non proprio questo vuoto, questo silenzio... » (Il Tempo). Ancora, e meglio: « Gli abitanti, la sera, analogamente ai tempi di guerra, si riuniscono come cospiratori per apprendere da radio Praga le ultime notizie sulla loro agitazione » ('Avanti!;. Il quotidiano socialista buttava le cose in politica, informando che le organizzazioni democristiane erano « pronte a sciogliersi, e i loro componenti a strappare rumorosamente le tessere scudo-crociate ». La cosa non avrebbe dovuto rallegrare nessuno, perché era triste constatare che cosa giace nel fondo della pigra e meschina Italia provinciale, dove è possibile che in nome di una targa di automobile che rechi in giro la sigla « Is » ogni altra sigla venga rinnegata: De, Pei, Psi, Psdi, ed inoltre elencando. Vittorio Gorresio L'Aquila, 1970. I cittadini, «parenti stretti di Fortebraccio da Montone», insorgono contro le pretese di Pescara a diventare capitale (Foto Team)