Un'impresa ai limiti dell'impossibile di Carlo Moriondo

Un'impresa ai limiti dell'impossibile Un'impresa ai limiti dell'impossibile Con qualche sarcasmo, un giornale inglese pubblica una vignetta che rappresenta la punta dell'Everest: c'è un vigile urbano che sta dirigendo il traffico e non è difficile riconoscere che indossa la divisa dei vigili di Milano. Prendiamo il disegno come un omaggio, una volta tanto, all'organizzazione di cui danno prova gli italiani, ma riconosciamovi anche, oltre alla satira, un fondo di verità. Le cordate italiane si susseguono sulla vetta del «Tetto del mondo », due l'hanno raggiunta, una terza è in procinto di arrivarci. Coloro che non sono troppo esperti di alpinismo sbalordiscono e, oltre a chiedersi il perché di questa spedizione dopo che tante altre l'hanno preceduta, si domandano se anche all'Everest sia toccata, molto rapidamente, la sorte di tante altre montagne famose, che, secondo la classica scala di Mummery, sono state degradate nel volgere di una generazione da « estremamente difficili » a « piuttosto difficili », fino a cadere sul gradino più basso di «adatta per tutti gli escursionisti ». Certo, la differenza è enorme, tra i primi tentativi, che ci appaiono preistorici, e l'attuale vittoria propiziata dagli elicotteri e da tutti i più moderni ritrovati della chimica alimentare o altro. Ancora nel '22, cinquantanni fa, a quanto racconta Brace nella sua relazione circa un tentativo all'Everest, «per scegliere i portatori sherpa bisognava promettere buon cibo, buone vesti, buona paga, farli debitamente benedire dai loro sacerdoti e proclamarsi devoti pellegrini, per ottenere l'accesso alla Sacra Madre delle Nevi ». Dopo di che, la spedizione statunitense venne quasi impedita dall'insorgere di due correnti contrapposte: prò ossigeno e contro ossigeno. V'erano i puristi che consideravano l'uso dei respiratori (pesantissimi, pericolosi, sempre guasti) come « un oltraggio alla purezza della montagna, che doveva essere lealmente vinta con le sole forze che l'uomo aveva ricevuto dalla Natura ». Allora (come ora, poiché l'uomo non cambia) vinsero i, diciamo, materialisti, e persero gli idealisti. Venne democraticamente approvata, ai piedi dell'Everest, la proposta dello scalatore Finch: « Si adoperino i respiratori in nome della scienza: una cordata con ossigeno aprirà la via ad una cordata senza ossigeno ». Dopo di che, come era facile prevedere dato che la tecnica era all'inizio, il respiratore di Bruce si guastò quando egli era oltre settemila metri e Finch riuscì a ripararlo giusto in tempo perché il compagno non morisse asfissiato. A parte i respiratori, la tecnica rimase quasi immutata per trent'anni. La spedizione vittoriosa dell'Everest capeggiata dal col. Hunt nel '53, non era molto meglio equipaggiata. Sì, l'ossigeno era in bombole un poco più leggere, un poco più sicure; i cibi erano stati studiati in modo da fornire il maggior numero di calorie; spariti i pericolosi fornelletti a petrolio, erano entrati nell'uso fornelletti a gas propano e butano; gli alpinisti salivano portando sulle spalle scalette di alluminio, divise in elementi del peso di pochi chili (di cui gli sherpa non si fidavano per niente preferendo avvolgere i gradini ed i montanti nelle loro vecchie corde di canapa). Ma tutto il trasporto veniva ancora effettuato a spalle, con il sistema della catena: una piramide di alpinisti e di sherpa dì alta quota si sacrificavano per consentire ai due migliori (o più in forma in quel momento) di salire, per così dire, sulle loro spalle e giungere in vetta crlqmmIl nailon portò indubbia- \ cmente negli anni successivi, I ì vantaggi più rilevanti: le corde divennero abbastanza i leggere e fu possibile portar- \ cne tante da « attrezzare » i punti più scabrosi e dare agli scalatori la sicurezza del ritorno anche nella bufera. Nel '62 un rombo nei cieli annuncia però una novità sensazionale: per la prima volta una spedizione, quella americana finanziata in gran parte dal « National Geographic », usa l'elicottero, per ora lo fa soltanto per il rapido trasporto di feriti. La polemica annosa è ancora aperta: si viola o no la « sacra montagna » — o l'essenza stessa dell'alpinismo — portando l'uomo così in alto con mezzi meccanici? Per intanto gli americani compiono l'impresa sensazionale di salire l'Everest da due parti diverse, una comitiva all'insaputa dell'altra. E' stato quello, per ritornare alla vignetta umoristica inglese, il primo caso di « sovraffollamento » su una vetta che fino a vent'anni fa pareva vietata all'uomo. Eppure fra quella e l'attuale spedizione italiana, il salto qualitativo e quantitativo è stato enorme, maggiore di quanto non sia mai avvenuto in precedenza. Gli italiani, secondo una frase piuttosto in voga, hanno fatto la guerra all'Everest, vi sono sbarcati come si può sbarcare in un'isola, affrontando, invece di cannoni e napalm, freddo e sete e bufere e la terribile rarefazione dell'aria. Due elicotteri Iroquois sono stati portati dall'Italia in Nepal e là rimontati da specialisti, in modo così perfetto che pochi giorni dopo potevano cominciare a trasportare bombole, tende, vestiario, medicinali, equipaggiamento, viveri al campo che era stato approntato a 6500 metri di altezza. Nove voli effettuati da super-vagoni volanti alimentavano intanto la spedizione. Fatti rientrare i portatori locali (circa millecinquecento elementi), ben settanta persone si concentravano ai piedi dell'Everest, di cui 52 erano militari (c'erano anche due osservatori cileni). Sorgeva una piccola città di sessanta tende arancione, per gente che, di proposito, non era stata scelta per particolari virtù alpinistiche a parte Carrel e Minuzzo. Di quanto ha perso sotto l'aspetto puramente alpinistico, altrettanto la spedizione ha guadagnato sotto l'aspetto scientifico. Lo stesso Monzino aveva dichiarato che lo scopo principale sono gli esperimenti fisiologici ad altissima quota. Perciò cinque quintali di macchinario sono stati portati ai piedi del ghiac- ciaio di Khumbu. C'è uno spirometro, che misura la ventilazione polmonare (cioè la quantità d'aria respirata ogni minuto dal soggetto in esame), che da solo pesa due- cento chili ed è alto tre metri. Il suo trasporto è costato acrobazie. C'è un misuratore di ossigeno e di anidride carbonica, sia nell'aria respi- rata che nel sangue; c'è una serie di « cyclettes » che consentono di misurare la capacità lavorativa di ognuno a quelle quote. Ci sono generatori di energia elettrica modificati in modo da rimediare alla scarsità di ossigeno. Tutto sommato, gli italiani hanno portato ai piedi dell'Everest un laboratorio fisiologico che non ha precedenti. L'equipaggiamento, poi, proviene direttamente dalle esperienze compiute nei laboratori americani, che approntano i voli spaziali: tute leggerissime eppure perfettamente impermeabili, guanti impalpabili, per cui non è più un ostacolo neppure la manovra di una piccola cine¬ presa; scarpe isolate termicamente; cibo particolare a seconda delle diverse quote. Sembra che Monzino, esperto « manager » di montagna, da uomo che finora non ha mai fallito una spedizione, abbia proprio pensato a tutto, sembra che il ministero della Difesa gli abbia proprio procurato tutto, a dispetto di certi magri bilanci Ma non bisogna illudersi, l'uomo resta la misura di tut te le cose, e senza lo spirito di sacrificio dell'uomo la scalata italiana dell'Everest non sarebbe stata compiuta. La salita dal Colle Sud alla vetta resta un'impresa tremenda, al limite delle possibilità, anche se si hanno litri e litri di ossigeno in spalla. E tale resterà, fino a che gli elicotteri non consentiranno di essere depositati sulla cima, come un pacco postale. Ma quel giorno è lontano e, quando arriverà, l'uomo si cercherà altre mete difficili, che gli diano la misura di quanto vale. Carlo Moriondo Fabrizio Innamorati r a Katmandu. Il campo base della spedizione italiana; sul fondo, la vetta dell'Everest

Persone citate: Carrel, Fabrizio Innamorati, Finch, Hunt, Minuzzo, Monzino

Luoghi citati: Italia, Katmandu, Milano, Nepal