Il comunista amendoliano

Il comunista amendoliano VOI E NOI Il comunista amendoliano Come lutti i partiti, anche quello comunista ha molte facce, pubbliche e private. Per oggi cerchiamo di sbirciare la più crucciata, quella che ha i lineamenti di Giorgio Amendola, e vediamo se ci riesce di percepire i motivi di tanto irritato malumore. Sono molti e diretti un po' contro tutti, persino contro lo stesso pei. Al comunista di tipo amendoliano non vanno giù i fascisti, e si capisce. Non va giù nemmeno il governo Andreotti, perché non ha una vera maggioranza parlamentare e perciò sopravvive badando solo a evitare scogli e secche, mentre il Paese ha un bisogno urgente di risanare l'economia e di avviare buone riforme sociali. Tuttavia sono i socialisti a fare arrabbiare di più il nostro personaggio. Proprio nel momento in cui i comunisti bollano di « fascismo rosso » le attività dei gruppuscoli di sinistra, ecco che quelli lì, i socialisti, si mettono a civettare con Capanna c i suoi compagni. Ma per il comunista amendoliano medio (per brevità, d'ora in poi lo indicheremo con le iniziali, c. am.) la ragione principale del contrasto con i socialisti riguarda la formazione di un governo diverso da quello attuale: come fanno i socialisti a storcere il naso nei confronti dei liberali, lasciando capire ne! contempo di essere disposti a mettersi insieme con certi democristiani che sono ben più conservatori, assai più reazionari dei liberali? Realista com'è, il nostro c. am. non si stanca di ripetere ai socialisti che oggi l'importante è fare un governo che governi sul serio, sulla base di un programma concordato esattamente e portato avanti grazie a una larga maggioranza nel Parlamento. Con un governo così, i comunisti sarebbero mollo comprensivi dentro e fuori delle aule parlamentari, specie nei corridoi: naturalmente ogni tanto alzerebbero il tono della voce, ma lo farebbero solo per la platea, perché così vuole il gioco dello parti sulla scena politica. Anche contro i sindacati il nostro c. am. ha covato parecchio risentimento: da una parte i sindacalisti non riescono più a tenere a freno la parte più irrequieta della base, e dall'altra i cattolici, quelli della Cisl, una ne fanno e cento ne pensano curandosi solo di scavalcare a sinistra i comunisti, quelli della Cgil. Ma quando mai si è visto un Paese travagliato per tre anni di fila da scioperi di ogni genere, rovinosi per l'economia e perciò per la stessa classe operaia, scioperi che suscitano ondate di collera in vaste zone dell'opinione pubblica, e lutto ciò senza reali prospettive rivoluzionarie? Su questo punto il c. am. appare veramente indignato. Arriva a domandare: « Ma questi sindacalisti hanno mai aperto un libro di storia? E se sì, come fanno a dimenticare che se si tira troppo a lungo la corda degli scioperi, da tutte le parti e senza sbocchi rivoluzionari, inevitabilmente la corda finisce con lo spezzarsi, la classe operaia va a finire per terra e viene manganellata di santa ragione da un regime dittatoriale di destra? ». Quando si lascia andare al suo umore nero, il nostro c. am. non risparmia critiche neppure al suo stesso partilo. Per esempio, egli rimprovera al pei di non avere capito, se non con grande ritardo, che il problema italiano numero uno è la questione meridionale. Abbacinato dal mito che le grandi concentrazioni di operai nelle fabbriche del Nord avrebbero maturato il clima per una rivoluzione socialista, per decenni il pei ha trascurato le esigenze e le aspirazioni dei lavoratori meridionali, e in pratica li ha abbandonati nelle mani della piccola e media borghesia locale, incolta ma potente, qualunquista e borbonica. Gli aspri frutti si sono visti a Reggio, e più in generale nella valanga di voti ai fascisti. E ora che fatica dovrà farsi per recuperare il terreno perduto. Ma le stizze contro tutti del nostro c. am. sono sincere, oppure nascondono una tattica per rendere accettabile un primo colloquio fra il pei e i partiti detti democratici? Per esempio, quando i comunisti sollecitano i socialisti a non più indugiare, a decidersi una buona volta a rientrare nell'area governativa, non vogliono forse servirsi dei socialisti come di un cavallo di Troia, per poi irrompere loro, i comunisti, nella cittadella democratica e metterla a ferro e fuoco? Di fronte a sospetti come questo, sulla faccia del c. am. vedete al cruccio aggiungersi un desolato sconforto: e le labbra esitano ad aprirsi, a rivelare l'interno affanno. Il c. am. risponde infine che, qualunque cosa faccia, il pei non riuscirà mai a convincere della sua buona fede democratica non solo quel 70 per cento degli italiani che gli volano contro, ma nemmeno molti tra i suoi stessi iscritti o simpatizzanti. I primi, gli avversari dei comunisti, sono condizionali da oltre mezzo secolo di incessante e dura propaganda anticomunista, dall'ombra funesta di Stalin, dalle temerarie sparate di vecchi e nuovi tromboni comunisti, da certe amletiche ambiguità del pei nei confronti dell'Unione Sovietica, da una base che esige tutto e subito in un'Italia dissestata e che in realtà può dare sempre meno, con un ritardo via via maggiore. Ora, come si fa a ripulire il terreno comunista da un materiale così ostile, così ingombrante e attaccaticcio? E nello stesso tempo come si fa a persuadere milioni di comunisti che non è possibile fare la rivoluzione e che bisogna imboccare la via delle riforme, gradualmente, accontentandosi per il momento di quel poco che passa il convento? Se lo si dice apertamente, questa grossa massa di proletariato immaturo e impaziente non volterà le spalle al pei e non andrà a sfogarsi nel grembo dei gruppuscoli o addirittura di Almirante? E allora, che fare? Più si approfondisce il discorso, e maggiori diventano le ambasce del nostro c. am. Sono tanti e poi tanti i motivi che lo portano a ragionare allo stesso modo, mettiamo, di un La Malfa; ma nello stesso tempo egli è costretto a muoversi nell'ombra, con grande cautela, temendo di non essere più seguito dalle masse che nel pei vedono tuttora e ingenuamente una specie di arcangelo Michele, armato di spada e sul punto di decapitare il dragone capitalista. E allora, che fare? Il nostro e. am. si arrovella tra cento pensieri, ipotesi, congetture, di tanto in tanto si azzarda a uscire allo scoperto per formulare proposte moderate; ma poi deve tornare a chiudersi nel suo guscio, rendendosi conto che tra gli avversari nessuno gli crede, e diventa inviso ai suoi stessi compagni. E allora, che fare? Egli, il c. am., non se la sente di dare ascollo ai consigli di pazienza e di prudenza di Berlinguer, perché, si dice, oggi il tempo ha un ritmo veloce, imprevedibile, e perciò il troppo temporeggiare potrebbe formare una distanza incolmabile tra le masse comuniste e la società italiana. E neppure se la sente egli, il c. am., di lasciarsi tirare su il morale da chi gli ricorda che alla fin fine il pei con quasi dieci milioni di elettori, ha pur sempre un grosso capitale: non se la sente perché nel suo cuore si agitano le stesse ansie di chi possiede bensì un grosso conto in banca, ma per un verso non sa come investirlo e per un altro sta sempre a temere che venga deprezzato dalla svalutazione. In effetti, come dargli torto? In effetti, anche nel campo dei miti e delle ideologie politiche, questi sono tempi duri, tempi di rapida svalutazione. La gente vuole sempre più tornare sul concreto: ripresa economica e ordine pubblico, meno scioperi e migliori servizi sociali. E il nostro c. am. ne è pienamente consapevole, vorrebbe perciò che il pei desse un suo forte contributo in questa direzione. Però quanti sono disposti ad ascoltarlo all'interno del partito e fuori di esso? Una minoranza? Bene, diciamo una minoranza. Ma quale consistenza ha quella minoranza? Il nostro infelice c. am. teme che essa sia piccola, impacciata e circondata tutt'intorno dal vuoto del deserto. Nicola Adelfo

Persone citate: Almirante, Andreotti, Berlinguer, Capanna, Giorgio Amendola, La Malfa, Stalin

Luoghi citati: Italia, Reggio, Unione Sovietica