Un "antipatico" del primo '900

Un "antipatico" del primo '900 "L'egoista,, all'Alfieri Un "antipatico" del primo '900 La commedia di Bertolazzi con lo Stabile di Trieste, protagonista Mario Feliciani E' curioso che Carlo Bertolazzi abbia offerto con L'egoista una splendida occasione proprio a quei grandi attori del suo tempo che gli rifiutavano le commedie in lingua o gli imponevano di voltarle o di lasciarle voltare nel natio dialetto lombardo (Bertolazzi era nato a Rivolta d'Adda nel 1870) o veneto. Fu infatti Ferruccio Benini a portare la commedia al successo nel 1901, ma recitandola in dialetto veneziano: «Per quanto facessi, per quanto pregassi — ebbe a scrivere quasi alla fine dei suoi brevi giorni (morì nel 1916) l'autore — non mi fu mai concesso di sentire il mio lavoro nella sua giusta veste». Soltanto nel 1944 L'egoista viene rappresentato nel testo originale in lingua da Giulio Stivai, ma ricade nell'oblio fino al 1960 — l'anno stesso, si badi, della ripresa del Nost Milan — quando Giorgio Strehler lo mette esemplarmente in scena, protagonista Tino Carraro, per il «Piccolo» milanese. Ora, un regista che a Strehler è stato per molto tempo vicino, Fulvio Tolusso, ripropone la commedia in una nuova edizione allestita con la compagnia dello Stabile di Trieste e presentata con cordiale successo all'Alfieri per la stagione in abbonamento del nostro Stabile. E' una commedia come suol dirsi di carattere, al punto da negare al tagliente e amaro ritratto del protagonista ogni cornice di quasi quarant'anni di vita italiana (la vicenda si apre nel 1864 e si conclude all'inizio del secolo). Proprio da questo rifiuto della storia Strehler aveva preso l'appiglio per spostare l'azione dal 1901, là dove essa terminava, al 1940. Anche Tolusso l'ha un poco postdatata partendo dal 1885 per arrivare a un anno non meno significativo, 1914, e ha cercato di suggerire il colore del tempo ricordando, con diapositive proiettate sul sipario a tre quarti d'altezza che serve a scandire i quattro atti, e le quattro età, della commedia, gli avvenimenti di quegli anni. Le citazioni non sono tuttavia molto significanti e sembrano appiccicate un po' a forza ad una commedia così chiusa in se stessa, tutta tesa a rappresentare l'intera vita di un borghese dal cuore arido fissandola in quattro momenti di essa: un matrimonio per interesse, e per di più soffiando la sposa al fratello timido e buono, un adulterio senza passione mentre la moglie gli muore di tifo, una violenza morale e ipocrita alla figlia per costringerla a rinunciare all'amore e a rimanere accanto a lui, salvo a compensarla nel quarto atto diseredandola, per paura dell'aldilà, lui sino ad allora miscredente, a favore della Chiesa. Secca e quasi schematica nei primi due atti, la commedia s'interiorizza nella seconda parte con la descrizione, sapientemente sfumata, dei rapporti tra padre e figlia. E l'egoismo del protagonista sarebbe qui quasi patetico se la vena sarcastica dell'autore non lo risvoltasse in una sogghignante, e agghiacciante, comicità. Dì questa comicità, come della programmatica freddezza della prima parte, lo spettacolo si limita a cogliere gli aspetti esteriori. Peccato, da un regista come Tolusso si potevano pretendere una finezza e un approfondimento maggiori, invece la sua regìa è soltanto diligente e dignitosa, come la sobria scenografia di Carlo Tommasi e gli accurati costumi di Maurizio Monteverde. E' uno spettacolo insomma un po' sbiadito, o meglio sfuocato, anche perché, diversamente da altre volte, gli attori dello Stabile triestino (Angiola Baggi, che sì sdop¬ pdBScSsntrnmsecapcsdp pia nei personaggi della madre e della figlia, Elisabetta Bonino, Giusi Carrara, Lino Savorani, Mimmo Lo Vecchio, Mino Bellei, e ancora il Saletta, il Bobbio e altri) non sembrano molto a loro agio nelle rispettive parti. Più intonato è il protagonista, Mario Feliciani: forse la sua ironia non è abbastanza affilata, ma la sgradevolezza del personaggio è resa con tocchi esperti ed efficaci se è vero che costringe lo spettatore ad ammettere, e qui sta uno dei pregi della commedia, che in ciascuno di noi cova qualche scintilla di quell'egoismo che divampa in gelide fiamme sul palcoscenico. Alberto Blandi

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