Peccati e parole al Number One di Lietta TornabuoniGuido Guidi

Peccati e parole al Number One Peccati e parole al Number One Roma, maggio. « Pure i cani! », sbalordisce il presidente del tribunale Jannuzzi, con voce strangolata dallo stupore. Pure i cani, come no. Nell'aula della Corte d'assise, dove si celebra il processo del « Number One », il pubblico ride. L'imputato Beppe Ercole non ride. Un tic gli stira la bella faccia dorata: l'abbronzatura perenne o almeno precoce è un dovere rigorosamente assolto durante le ore di «aria» a Rebibbia, una di quelle regole di vita cui un uomo come lui non si sottrae neppure in prigione. Non ride il giudice che sta leggendo i verbali di un confronto tra Ercole e il produttore cinematografico Daniele Senatore: « Sotto droga dormivate in piedi, sdraiati, abbracciati ai cani », ripete. E riprende impassibile la lettura: « Nella villa dove eri andato a stare a Grottarossa succedevano cose da pazzi. Lo dirò io, quel che succedeva nella tua casa di Largo Messico: bisbocce di ogni genere. Sei riuscito poi a convivere contemporaneamente con tre donne, Simonetta, Gabriella e Stefania. Abitavate ammucchiati in due stanzette e di lì, quando vi svegliavate dopo le orge, andavate a mangiare al club dove in uno stalo pietoso vegetavate sino a tarda sera ». Il tic adesso quasi sfigura Ercole, che sfrega contro la perfetta flanella grigia del vestito le palme sudate delle mani. Tra qualche minuto chiederà il rinvio della seduta, informerà di sentirsi « molto stanco », e non dev'essere vero: ammesso che siano reali, bisogna dire che vizio e sregolatezze sembrano non nuocere al fisico, ma costituire anzi una singolare cura di bellezza. Dietro gli occhiali scuri, segno distintivo di ogni protagonista di casi giudiziari eleganti e no, quelli del «Number One» che si avvicendano al banco dei testimoni o degli imputati appaiono belli, sani, scattanti, abbronzati. Molto ben vestiti. Non allegri, magari: però in ottima forma. Il processo risulta meno affascinante. Pare stemperarsi in grette beghe e maldestre bugie la tempesta scandalosa che strapazzò Roma nel febbraio del 1972: alimentando leggende di crudeltà sessuali alla Gilles de Rais e di intrighi finanziari alla Stavisky, mitizzando i viluppi del « Kamasutra alla vaccinara ». Il clima è cambiato. Ora è quasi estate, a Roma la gente è sazia di scandali. Negli interrogatori o nei documenti processuali si svilisce l'immortale binomio di ogni feuilleton, sesso e soldi; l'aureola peccaminosa dei protagonisti perde smalto. A considerarli con professionale indignazione rimangono, forse, soltanto i magistrati. Oppure i cancellieri con poco uso di mondo, che verbalizzano sgomenti: « si eseguivano bisbocce di ogni genere», «avevano luogo festini con la partecipazione di personalità dell'ambiente " in " », « ai Rizzi Luigi vinsi complessivamente a poker la somma di lire quattromilioni ». Eppure il processo de « la marcia vita », che, appena cominciato, pare già deludere molti ed appassionare pochi, riserva ancora qualche sorpresa: ne emerge una luay of life stravolta, un curioso mondo di esistenze storte e stracche. Emergono riferimenti costanti, che riguardano soprattutto le automobili. Evidentemente costituiscono per i protagonisti essenziali pietre miliari della vita, esclusivi calendari ritmanti le scadenze del tempo, uniche « madeleines » capaci di far risorgere il passato e stimolare il ricordo: « tanto è vero, che allora avevo la Mini Cooper »; « posso citare con precisione la data perché quel giorno portai dal meccanico la Mercedes pagodina »; « chieda un po' alla convenuta quale forma avevano le maniglie della Bmw biancolatte »; « prova ne sia che domandai all'attore di portarmi via subito, cosa che egli fece con la sua Rolls Royce color amaranto »; « quando avemmo commercio carnale l'imputato guidava, figurarsi, una Volkswagen del 1967 ». Emergono personaggi dai soprannomi pittoreschi e allarmanti: «Il Butterato», «Il Faina», «Bolero». Si scopre, oltre all'uso instancabile del turpiloquio corrente, un gergo meno consueto: « Insegnare a tirare » vuol dire iniziare alla droga, « sfondarsi » significa prenderne troppa; la « cartata » è una buona quantità di droga e il « pop corti » una specialità erotica; « pipa » è la denominazione dei cultori dell'hashish e « il robbiere », colui che porta la « roba », la definizione del fornitore di droga. Si apprendono le fluttuanti quotazioni della cocaina: pagata all'origine in Bolivia 3000 lire al grammo, acquistabile in Sicilia a 812.000 lire al grammo, rivenduta a Roma per 40.000 lire al grammo. Diva della vicenda, la coruveditesomdatasttedipralcepati SaVJononodel'afiparpcadl'l'nvtesorirudVdpgtVmpovAfinvtcpRmtcvd«gpssEfnbsmL n e i e a i i , e o cocaina si esibisce in molti ruoli: nascosta in barattoli di vetro posti come centrotavola a disposizione degli ospiti, durante le feste; occultata in bustine sotto i pneumatici delle automobili parcheggiate; annusata da trasparenti boccettini; imputata di narici sanguinanti, crostose o colanti, e di conseguente largo consumo di fazzoletti di carta; data in pagamento di prestazioni sessuali, ai ragazzi o alle ragazze. Le ragazze-comparse del processo hanno nomi che sono o paiono finti, ricavati da fumetti « sul mondo dei ricchi »: Samantha Foumba, Reinette de Villiers, Federika, Rosmina, Jolande. Ma spesso non hanno nome. I loro accompagnatori non li ricordano, tendono rudemente a scambiarle una per l'altra, le confondono, le identificano soltanto attraverso il paese d'origine, come sotto le armi o nei bordelli d'un tempo: « la Svizzera », « l'Austriaca », « ricordo che vi erano due arabe », « una sarda? Sì, l'ho conosciuta », « la negra? l'avrò fatta un paio di volte, non so più che faccia abbia ». Anonime loro, amara la loro vita: risultano abitanti in abiette pensioncine, sempre senza soldi, e trattate con dura volgarità commerciale. Vengono derubate di faticato contante o dei prediletti boleri di visone Vengono indotte, con il ricatto del foglio di via già ricevuto o paventato, a firmare procure generali che le priveranno di tutto il poco che possiedono. Vengono passate di mano in mano, usate, « scaricate », ado perate come oggetti di scambio, offerte in prestito, addirittura vendute: « Per riavere la Susy Andersen, che io gli avevo soffiato, il Torri mi offrì un milio ne: poi neppure me lo versò ». Vengono invitate a vivere in villa e immediatamente mollate da sole; oppure mandate a cena al ristorante, ma in compagnia del domestico di casa. Restano vittime di sciagurate malattie professionali: « avevo tagli e cicatrici perché negli incontri saffici la nobildonna usava rigarmi tutta la schiena mediante uno spillone con perla »; « dopo l'operazione di chirurgia plastica, al seno destro un punto mi era rimasto aperto e suppurava, avevo febbre alta, soffrivo molto: loro a Porto Ercole mi misero cocaina sulla ferita e me ne fecero anche annasare, cosicché il dolore subito diminuì ». Sono terrorizzate dalla prospettiva di disastro si tormenti: « Il Ruggeri mi minacciò dicendo: "Guarda che a te la testa ti finisce nella bu sta di plastica" ». « Minacciò di farmi brucia re con il kerosene il locale di Porto Cervo », lamenta da parte sua Paolo Vassallo, parlando d'altri: da testimonianze e incartamenti del processo, anche la vita dei protagonisti maschili appare spesso aspra. Soldi ne cvrrdsRugtnrMcccp i e i o e e circolano, s'intende: « al poker vinsi quel giovedì 800.000 lire », « il Torri prestò al Piroddi 1.200.000 lire per saldare il suo debito con il Casinò di Montecarlo », al GinRummy arrivano a perdere in una sera anche due milioni. Si dicono proprietari di eleganti « mews » a Londra, partono per New York, soggiornano a Gstaadt, le notizie ferali li raggiungono a Parigi. Ma, folgoranti, emergono anche inattesi squallori: « all'epoca non possedevo telefono in casa, comunicavo col gettone»; « in realtà il mio non è un appartamento, piuttosto una garsonnière non arredata, insomma vi è soltanto una brandina »; « con la scusa del Canaletto da 200 milioni mi fregò 10.000 lire, e non l'ho più riviste ». Conducono vite bislacche: « Uscivamo dal "Number One" verso le due, le tre del mattino, andavamo con la "roba", a casa di qualcuno e restavamo lì fino al pomeriggio seguente ». Ma, nelle deposizioni, questo non sembra escludere il culto per gli affetti familiari più tipicamente romano: « quel giorno mi trovavo al Policlìnico, dov'era ricoverato mio cogna to »; « vivo con una somma mensile che mi manda mamma »; « come socio mi depredava, ma tolleravo perché era pure padrino del pupo mio più piccolo »; « la domenica precedente, ricordo, portai la famiglia al Terminillo ». Un unico mistero continua a pesare su queste esistenze sgangherate e ormai completamente rivelate. Tutti si dichiarano innocenti e vittime di errore giudiziario, tutti attribuiscono alla calunnia i reati di cui sono imputati: nessuno, tuttavia, pare sapersi spiegare perché mai gli altri lo avrebbero calunniato. Quando riescono a metterne insieme una, le spiegazioni vengono fatte risalire a sentimenti particolarmente improbabili in un simile ambiente: gelosia, orgoglio offeso, suscettibilità morbosa, un senso eccessivo della propria dignità personale, insufficiente serietà, desiderio di proteggere un amico. Molto più spesso gli imputati non sanno, non capiscono, non arrivano a comprendere, cadono dalle nuvole, rimangono esterrefatti, non credono alle proprie orecchie. Sarebbero magari enigmi molto facili da sciogliere, anche se non è detto che il processo del « Number One » li chiarirà. « Va liscio, va liscio », ripetono gli avvocati. E si fregano le mani: ma con troppa allegria, con sicurezza troppo perentoria per non lasciar intuire il fantasma temibile delle brutte sorprese. Lietta Tornabuoni (A pagina 11: servizio di Guido Guidi sul processo a Roma).