Gramsci e il primattore

Gramsci e il primattore Gramsci e il primattore Antonio Gramsci visto da Levine (Copyright N. Y. Revlew of Dooks, Opera Mundi c per l'Italia La Slampa) G. Davico Bonino: «Gramsci e il teatro », Ed. Einaudi, pag. 146, lire 1200. Dopo l'entusiasmo, abbastanza acritico, degli Anni Cinquanta, e la sufficienza, altrettanto immotivata, del decennio successivo (ma già, i giovani erano ammaliati da Marcuse), si torna a rivalutare l'opera di Antonio Gramsci e, questa volta, con una maturità e una ponderatezza di giudizio che rendono improbabili le ricadute nel trionfalismo o nella denigrazione. Di questo ritorno a Gramsci, del quale ha recentemente e persuasivamente discorso Walter Pedullà (e che, vorremmo aggiungere, offre alcune analogie, neppure troppo singolari, con il revival pavesiano), è una sicura testimonianza l'agile studio, frutto di uri ciclo di lezioni universitarie e quindi di un continuo confronto proprio con i giovani, che Guido Davico Bonino ha condotto sulle cromiche teatrali gramsciane delZ'Avanti! torinese. Sul quotidiano socialista Gramsci scrive di teatro dal 1916 al 1920. Non solo dì teatro, naturalmente, ma il suo lavoro di recensore teatrale non è affatto in margine a quello politico se è vero che, da una parte, « ciò che lo colpisce e attrae, ora, nel vivo del giovanile impegno, è proprio la socialità del teatro, di suo parlare alila collettività e non all'individuo » e, dall'altra, « egli ha compreso che le classi al potere si possono servire anche del teatro per portare innanzi la sopraffazione del proletariato ». E tuttavia non è da un'angolatura strettamente e solamente di parte, e di partito, che Gramsci guarda al teatro. Nostro contemporaneo Le prove che ne dà il Davico Bonino, e non con l'affannosa pretesa di «spoliticizzare » Gramsci ma con la pacata convinzione di restituirlo nostro contemporaneo, e proprio sul fatto teatrale coma è già avvenuto nell'ideologia e nella prassi, scaturiscono da un'attenta aiuilisi delle cronache che un « discutibile criterio editoriale » (il [lamento, autocritico, è dello stesso Davico) ha confinato in appendice al volume einaudiano delle «Opere» gramsciane Letteratura e vita nazionale. E per sentirci subito vicini di poltrona, o magari di sgabello, con Gramsci in un qualsiasi teatro o, se vogliamo, luogo teatrale d'oggi, bastano alcuni temi: testo e spettacolo, polemica sull'attore, industria culturale, teatro dialettale. Alla riduzione crociana del teatro « a pura partitura letteraria da leggersi e valutarsi come un semplice testo » Gramsci s'oppone distinguendo — anche se inespressa, là distinzione è chiaramente sottintesa in molte recensioni — fra teatro scritto e teatro rappresentato e con l'occhio più a questo che a quello, sia pure per portare acqua al mulino del suo dissenso dal pri¬ mattore, nel caso Ruggerì, che fa prepotenza ai colleghi e al testo con un arbitrio particolarmente intollerabile quando si esercita su opere come Amleto e Macbeth. Invece lo spettacolo deve essere « una doppia creazione» nella quale « l'attore esprime plasticamente il fantasma che l'autore ha espresso verbal mente ». Il gusto generale Da qui al problema della regìa non c'è che un passo e Gramsci l'avrebbe certamente compiuto se non avesse dovuto accontentarsi dì ciò che il'mercato gli dava. E non era molto, essendo il teatro al lora nelle mani di un trust (Gramsci parla di Torino, ma il suo discorso vale per tutto il paese) che «era responsabile dell'abbassamento di livello del gusto generale» e che stava « abituando lentamente (il pubblico) a prete rire lo spettacolo inferiore indecoroso, a quello che rappresenta una necessità buona dello spirito». Parole che valgono ancora oggi non soltanto per il cinema e la tv, ma anche per le grandi ma novre pseudoculturali di alcune grosse compagnie e, purtroppo, di alcuni Stabilì. Dei densi capitoletti nei quali l'autore ha suddiviso il suo studio, altri ancora sono da ricordare, dalla franca po lemica pirandelliana, sfortunatamente mónca perché precede opere come i Sei perso naggi, al paradossale, ma non tanto, elogio della pochade o all'esplorazione del grottesco. E meriterebbe più di un cenno il - paragrafo sul teatro dialettale, non solo perché traccia con chiarezza quella che sarà la via gramsciana alla letteratura nazional-popolare, ma anche perché vi balena la speranza, meno utopistica di- quanto creda il Davico Bonino (non c'è stato poi Eduardo? ed è solo un autore per la borghesia?), in un teatro che non degradi il dialetto « al rango di un codice minoritario », ma lo assuma all'opposto « in tutta la sua pienezza espressiva di parola d'ordine di un'intera classe ». Alberto Blandi Uno studio sulle "Cronache teatrali 99

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