Antropologia da pionieri di Andrea Barbato

Antropologia da pionieri I PROBLEMI DELLA RICERCA SCIENTIFICA Antropologia da pionieri La scienza "più antica del mondo" in Italia è l'ultima venuta, e appena tollerata: tre cattedre universitarie, nessun aiuto dal Cnr - I nostri ricercatori, invece di lavorare sui "primitivi", compiono in casa ricerche culturali ed economiche: con scoperte che dovrebbero interessare programmatori e politici - I casi di coscienza degli studenti tra pregiudizi e realtà (Dal nostro inviato speciale) Firenze, aprile. A che serve l'antropologia culturale? E cosa può sperare, in Italia, un ricercatore di questa disciplina, tanto in voga quanto ignota? Cerchiamo una risposta insieme a Carlo Tullio-Altan, uno dei tre professori (gli altri sono Tentori a Trento e Bernardi a Bologna) che occupano la cattedra d'una scienza assente dalle Università italiane fino a due anni fa. Qui a Firenze Tullio-Altan, friulano, diplomatico mancato per vocazione partigiana, insegna nella facoltà di Scienze politiche, quasi un'oasi appartata in un Ateneo inquieto. E tanto più. tranquillo gli pare questo approdo, poiché viene da Trento, dove ha vissuto i mesi delle assemblee studentesche e della prima, appassionata contestazione. "Non esistiamo" « Noi antropologi — dice — siamo arrivati ultimi, dopo i sociologi e gli psicologi, e abbiamo dovuto subire la preclusione idealistica e storicistica delle altre scienze sociali. Da noi non c'è nessuna tradizione antropologica, sebbene sia la scienza più antica del mondo. Un po' di etnologia, qualche africanista spesso maturato nel periodo storico peggiore, e lo sforzo lodevole di qualche ex missionario. Per il resto, niente. Nel campo delle ricerche siamo a terra, non esistiamo. Un giovane aspirante ricercatore non trova nessuna attrezzatura, nessun dipartimento specializzato. Facciamo sentire una voce, molto flebile, nel campo del¬ la discussione teorica: ma non abbiamo neppure una rivista, le nostre pubblicazioni dobbiamo stamparle dopo averle tradotte, e i nostri saggi devono passare al vaglio delle case editrici, che spesso giudicano con comprensibili criteri commerciali ». Carlo Tullio-Altan. lui stesso, è arrivato all'antropologia per caso! e percorrendo vie tortuose. Dopo la laurea in legge, fu la guerra a impedirgli di entrare nella carriera diplomatica; partì volontario per l'Albania « con Hegel nello zaino », e furono forse proprio le letture ad aiutarlo a trovare la strada della guerra partigiana, in Friuli, nella « Osoppo ». Dopo una breve pausa politica (nella direzione liberale, con Croce, Solari e Casati), si isolò nello studio per vent'anni, scoprendo da solo l'antropologia. « Solo nel '59, a 43 anni, dopo un viaggio a Parigi e a Vienna, mi presentai da Remo Cantoni con un manoscritto, e poi diventai assistente universitario, non certo precoce... ». Ora, dopo Pavia e Trento, è arrivato finalmente a Firenze a insegnare la sua scienza impalpabile, e vive in una piccola casa di Borgo de' Greci, fra Santa Croce e San Firenze, che rischia di crollare per il peso dei libri. « L'antropologia è fiorita nei paesi che avevano colonie da governare e da analizzare, o nell'America che poteva studiare le proprie minoranze primitive: ma ora anche l'antropologia americana è in crisi da vent'anni, non sa che via imboccare. Le ricerche sul campo? Sono diventate quasi impossibili, perché i popoli si sono evoluti, e non accettano più di ospitare le spedizioni di studiosi occidentali ». Scompare, insomma, la figura dell'antropologo esploratore, che va a raccogliere il pensiero selvaggio nei tristi tropici. Chi servire? «Lo scienziato stesso spiega Tullio-Altan — Si trova in imbarazzo per ragioni di opportunità politica, meno che in quelle nazioni, come parte dell'Africa francese, che hanno conservato buoni rapporti con l'antica patria e che incoraggiano le ricerche per conoscere se stessi, e non per fornire materiale agli europei. La crisi dell'antropologo ricercatore lo porta spesso ad un bivio: o fa come Frank Cushing, che non pubblicò i suoi studi sugli indiani Hopi perché ormai li sentiva come fratelli, o cerca di mutare la condizione dei popoli arretrati, si trasforma quasi in guerrigliero, ed è perduto per la scienza ». L'antropologia culturale è destinata a morire, dunque, o a ridursi ad una disciplina teorica, inquadrata in quelle scienze filosofiche che, secondo una classifica che Tullio-Altan mostra malinconico, non hanno — per il nostro Consiglio Nazionale delle Ricerche — diritto a finanziamenti? Cosa può fare un antropologo in Italia? « Dedicarsi a degli studi particolari. — risponde — Io, ad esempio, credo all'antropologia economica, cioè allo studio di certi sistemi primitivi, non già per inse¬ rirli nell'economia di mercanto, ma semmai per motivi "opposti. E' importante osservare che certe popolazioni, pur nella loro povertà di mezzi, hanno risolto i problemi della distribuzione dei beni, della soddisfazione dei bisogni reali di ciascuno, molto meglio di noi. La loro attività economica è perfettamente inserita nell'attività sociale, secondo' ì "criteri della- reciprocità- e della redistribuzione: l'economia è un valore d'uso, non un valore di scambio. E' possibile recuperare una struttura di questo genere, in un'epoca di sistemi tanto più complicati? Quell'economia spontanea è adattabile a noi? Ecco una direzione di ricerca ». Ma, per il giovane aspirante antropologo italiano, la strada è difficile: o parte a dorso di mulo, solitario e coraggioso, come fece Ernesto De Martino quando andò a studiare i riti e le magie della Basilicata; o emigra, per esempio nell'istituto francese di Balandier; oppure si rassegna a non trovare che dubbi e porte chiuse. Eppure, secondo Tullio-Altan, la grande innovazione sarebbe quella di trasformare l'antropologia in una materia d'insegnamento nelle scuole medie superiori: come integrazione della storia e della filosofia, come « scienza delle scienze », per correggere il tenace etnocentrismo della nostra scuola. « Davanti agli studenti che s'affollano nei nostri corsi e seminari — dice — io mi chiedo perché vi sia una domanda di antropologia presso i giovani. Solo per la moda dello strutturalismo? O per la popolarità di un Lévi-Strauss? No, perché c'è un vuoto culturale: e allora colmiamolo. I giovani non vogliono più nozioni, ma vogliono sapere i rapporti fra l'individuo e la cultura in cui vive. Una scuola nuova dovrebbe insegnarli. Fra i miei allievi, assisto" ad' ' autentiche trasformazioni, talvolta accompagnate'da traumi conoscitivi. Una studentessa di Pavia mi diceva che ogni volta che entrava in aula, e sentiva mettere in discussione le sue convinzioni, era turbata fino alla crisi, tanto che poi ha abbandonato gli studi. E' un caso limite, ma dimostra che i giovani sono angosciati dai rapporti con gli altri individui e con le altre culture. E noi in Italia abbiamo per questo accentuato il taglio particolare di questa disciplina, ne abbiamo fatto una scienza elastica, adattabile alle realtà più mutevoli: ci viene rimproverato, ma è la nostra unica forza ». V antropologia culturale italiana cerca spazio, avanza proposte concrete, per farsi accettare come scienza a pieno titolo. Carlo TullioAltan non si scoraggia per i silenzi del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, che non risponde neppure ai progetti di ricerca, né per l'avarizia del Cnr. « Fra le nostalgie colonialistiche e le istanze ideologiche della Chiesa, non abbiamo molto spazio. Siamo un gruppo ancora minuscolo, che fra l'altro non ha ancora aperto un franco dibattito con la scuola etnologica e con la scuola cattolica. Ma abbiamo radici solide: Gramsci, per esempio, è stato un grande antropologo, i suoi pensieri sulla cultura sono ancora modernissimi, i « Anche se un antropologo è uno scienziato che non inventa farmaci né resine, — spiega ancora — potremmo fornire un correttivo utile alla sclerosi della scuola, insegnare a non irrigidirsi, a reagire attivamente, a studiare con autonomia di giudizio. Il vero controcorso potremmo farlo noi. I miei studenti accettano le lezioni, gli esami severi, studiano anche d'estate nei seminari, superano le crisi di dubbio, e tornano sempre anche l'anno dopo ». Pei e divorzio Tullio-Altan si considera ormai troppo anziano per partire nei viaggi d'esplorazione, ma non per questo si contenta di trasformare la sua disciplina in una cattedra di teoria sulle culture. Prende le occasioni pratiche dove le trova. Ha completato da poco una ricerca sulla personalità giovanile, nata da un'inchiesta su commissione dell'ufficio personale di una catena di grandi magazzini. « C'era del denaro in cerca di una ricerca — dice — e ne è nato uno studio utilissimo sulle idee e la cultura giovanile, che potrebbe aiutarci a capire molti misteri italiani. Riprenden¬ do le ricerche di Horkheimer e Adorno sulla personalità autoritaria, abbiamo scoperto per esempio una sorprendente disposizione a ventaglio a seconda delle idee politiche, molto omogenea, che dimostra come l'autoritarismo segni un massimo nella destra extraparlamentare (e subito dopo nei democristiani) e un minimo verso la sinistra. Certe cautele dei comunisti in materia di divorzio e di aborto sono spiegate dalle nostre ricerche quando troviamo che la fascia più tradizionalista è quella operaia. Abbiamo studiato le conseguenze culturali dell'emigrazione interna ». Gli antropologi come Tullio-Altan non si nascondono che le sorti accademiche della loro scienza non sono facili, e neppure che i limiti della ricerca sono reali. « Noi possiamo fornire elementi di chiarezza, materiale per analisi più ampie. Per esempio, lavoriamo bene con gli psichiatri: possiamo indagare sulla genesi del suicidio, studiando le variabili culturali nella formazione del proposito suicida. E perciò contribuiamo all'igiene sociale, all'esame di fenomeni come la droga, la crisi della famiglia. «Possiamo collaborare con i medici, studiare i conflitti di culture nelle zone d'immigrazione, insistere per la formazione di una personalità più creativa nelle scuole. Non molto di più. Possiamo indagare il fenomeno della comunicazione televisiva, ma rispetto ai semiologi scaviamo con il piccone. Possiamo fare un'analisi della stampa, che può servire come demistificazione ideologica. E infine possiamo contribuire alla comprensione dei nuovi fenomeni storici, dei rapporti internazionali con i Paesi nuovi ». L'antropologia, insomma, è da noi poco più che una scienza di pionieri, mentre altrove è già in una crisi di ripensamento. Il professor Tullio-Altan si prepara al seminario pomeridiano. Ieri uno studente, colpito da questa scienza del dubbio, gli ha esclama'to con sincera delusione: « Ma allora, la rivoluzione non si potrà mai fare! ». E quando racconta i suoi entusiasmi solitari e la sua difficile carriera scientifica, la frase che il professore cita più volentieri è quella di un' antropologa americana, Margaret Mead: « Quando non si è soddisfatti di se stessi si diventa psicologi; quando non si è soddisfatti della propria società .si diventa sociologi; quando non si è soddisfatti né di se stessi né della propria società, si diventa antropologi ». Andrea Barbato Rio de Janeiro. Antropologi americani fra le tribù indigene dell'Amazzonia, eredi di una civiltà antichissima e incontaminata (Foto Team)