Arriva prima Valluvione di Vittorio Gorresio

Arriva prima Valluvione CHE COSA NON FUNZIONA OGGI IN ITALIA Arriva prima Valluvione Se i problemi oltrepassano l'ordinaria amministrazione, l'inadeguatezza dello Stato appare disastrosa - Crolla un ponte o straripa un fiume: si dà la colpa all'ultimo poveraccio, poi si ripiega sull'imprevedibilità della natura, si parla dell'Ombrone come fosse il Mississippi o lo Yang-Tse - Dopo il terremoto del 1968 in Sicilia, il commissario spedito d'urgenza dal governo non sapeva che fare: la sua esistenza non era prevista dalla legge Roma, aprile. Se i problemi oltrepassano l'ambito dell'ordinaria amministrazione e i casi presentandosi improvvisi esigono soluzioni d'urgenza — come al momento di calamità naturali o di catastrofi — la inadeguatezza del nostro Stato si rivela ovviamente maggiore, in tutta la sua ampiezza disastrosa. Bastano anche cose da poco, senza pensare ai terremoti: basta una frana o un ponte che crolli, come accadde il 17 gennaio 1967 a trenta chilometri da Roma lungo la statale n. 7, più nota con il nome di Via Appìa oltre che con l'appellativo di « regina viarum ». Colà crollato di sorpresa un lungo ponte presso Ariccia, nella disgrazia perirono due automobilisti. Mauro Caucci Molara e Lino Ippolita Fu detto subito ufficialmente che il ponte si era spaccato per il freddo: « Sinistro dovuto a cause naturali. Un'erosione improvvisa dovuta al clima rigido di questi giorni. Il gelo avrebbe provocato — e non c'era possibilità alcuna di prevedere il sinistro — la frana del pilone ». Natura crudele. Ma poi si seppe dal controllo delle registrazioni meteorologiche che quella notte non era stata gran che fredda: due gradi sopra zero alle 21 e zero gradi a mezzanotte. Pietra insidiosa Esclusa quindi la responsabilità della temperatura, uno dei progettisti del ponte crollato (architetto Davide Pakanowski) allora parlò del disonesto comportamento della pietra da costruzione messa in opera sul ponte, il peperino romano: « Il peperino romano tende sempre a indurirsi e a divenire più compatto. Ecco perché il tempo, invece di danneggiarlo, avrebbe dovuto giovare al ponte; avrebbe dovuto, in un certo senso, averlo fortificato ». Non più natura crudele, ma peperino traditore, e pertanto disgrazia sempre imprevedibile. ■In' 'realtà : tutti sapevano che il ponte pericolava da molto tempo. Ad Ariccia dicevano che l'acqua vi filtrava e che ne piovevano sassi. Erano state apposte « biffe » e « spie » di vetro le quali si erano spaccate già dodici anni prima. La zia di un ■ex sindaco di Ariccia — la signora Maddalena Velletrani — aveva visto una fessura larga un palmo in un pilone ed un blocco di pietra caduto alla sua base. Lo aveva detto al geometra comunale, che le aveva promesso: « Provvederemo ». Ma chi avrebbe dovuto provvedere? Qui stava il punto della questione. Come strada statale l'Appia era di competenza dell'Anas, ma a quanto pare la competenza non comportava iniziative o responsabilità di controlli perché fra le migliaia di leggi prodotte dai Parlamento non ce ne era una che prevedesse verifiche periodiche di manufatti come ponti e strade; perciò non esisteva nella struttura dell'Arias un organismo con tali compiti: « Questi, piuttosto, spettano ai cantonieri », sì affrettarono a spiegare i funzionari dell'azienda statale della strada. Però mancava, oltre a una legge che imponesse verifiche delle condizioni di ponti e strade, anche un regolamene to delle attribuzioni dei cantonieri; o per lo meno quelli di Ariccia non lo avevano mai visto; né i cantonieri si potevano inventare o attribuire mansioni tecniche straordinarie. A parte la generale tendenza italiana a dare la colpa all'ultimo poveraccio se accade una disgrazia, bisogna dire che i poveracci più volonterosi non sono messi dallo Stato in condizioni di adempiere bene al loro dovere. Ne avemmo la probante dimostrazione il 4 novembre 1966, quando Firenze e la Maremma grossetana furono sommerse dalle acque dell'Arno e dell'Ombrone. Il guardiano dell'idrometro del Genio civile di Ponte di Sasso sull'Ombrone il 3 novembre alle sei di sera vide che l'acqua aveva raggiunto il livello di pericolo, due metri e mezzo. Quell'idrometro era in una casupola distante due chilometri da Sasso, sprovvista anche di luce elet¬ trica: per leggere la scala metrica il guardiano soleva usare una lampadina tascabile. C'era un collegamento telefonico, con l'ufficio del Genio civile di Grosseto, ma su linea volante, aerea, che con la pioggia non funzionava, generalmente, perché faceva massa, come dicono gli elettricisti. Quel pomeriggio infatti essa era interrotta ed il guardiano, a piedi, salì al paese di Sasso. Nemmeno a Sasso funzionava il telefono, e la strada per Cinigiano dove esiste una stazione di carabinieri ' era ostruita da frane. Le ore perdute A piedi, sempre a piedi sotto la pioggia, il guardiano raggiunse la stazione ferroviaria dì Civitella Paganico, a pregare il capostazione che telefonasse al collega di Monte Amiata invitandolo ad avvertire il capostazione di Grosseto perché desse l'allarme al Genio civile della sua città. Era mezzanotte, circa, e l'idrometro della casupola di Ponte di Sasso sull'Ombrone segnava intanto quota nove. L'alluvione a Grosseto arrivò alle sette e tre quarti del mattino dopo, inaspettata, quando una telefonata avrebbe potuto da¬ re l'allarme con tredici ore di preavviso: «Avremmo salvato il bestiame», dissero i contadini alluvionati. Oltre alle ore è da por mente alle date. L'alluvione del 1966 maledettamente coincise, il 4 novembre, ■~con la celebrazione della nostra vittoria nella prima, guerra mondiale. Giorno di festa, il Genio civile era in vacanza. Il guardiano di un altro idrometro, quello della Fornacina sulla Sieve, tre chilometri a monte della confluenza della Sieve in Arno, mi spiegò i fatti: «E' il Genio civile di Firenze che ci chiama al telefono se vuole informazioni, ma io mi presi l'iniziativa di chiamarlo io. L'ingegnere non c'era, lasciai detto che mi telefonasse, lui non si fece vivo. Oh, che ne so: vuole che faccia io il Genio civile?». Il brutto è anche che le feste sono da noi più numerose che in tutto il resto del mondo. Feste o non feste, in ogni modo, le alluvioni in Italia non sono eventi che sia impossibile prevedere; le stesse autorità si fanno il vanto di non farsi cogliere mai di sorpresa. Nella relazione sul bilancio statale per il 1967 era scritto che «le opere idrauliche rappresentano un settore prioritario di inter- o a e vento» a prova che «il problema era stato esattamente individuato dalla classe politica dirigente». Nella relazione sulla settima legge di attuazione del piano trentennale «orientativo» per i fiumi si leggeva, nel 1952, che in Italia «i terreni' veramente stabili non sono, neppure un terzo dell'area nazionale, e quel terzo che appare sano non è neppure esso al sicuro dalle inondazioni». Eppure non abitiamo in zona di ciclone, e i nostri fiumi — l'Adige e il Po, l'Arno, l'Ombrone, il Tevere o l'Arrone — non sono il Mississippi o lo Yang-Tse. Sarà vero che il nostro paese è «uno sfasciume geologico», come scriveva Giustino Fortunato, ma non dovrebbe essere impossibile una politica della montagna, delle acque, del rimboschimento, delle dighe e degli argini. Le priorità Quasi si offendono i ministri nostri con chi gliene parla: «La stabilizzazione del suolo è in cima alla scala delle priorità», mi disse un giorno categoricamente l'allora titolare dei LL.PP. Infatti il piano trentennale orientativo per i fiumi fu dotato nel 1952 di 1454 miliardi da spendere in trent'anni, e poi arricchito nel 1965 fino alla concorrenza di 2200 miliardi. Ma nel primo decennio di esecuzione — come risultò poi da una comunicazione del ministro Giacomo Mancini al Consiglio superiore dei lavori pubblici — invece degli 849 miliardi messi in bilancio per il periodo considerato, ne erano stati spesi solo poco più di un terzo, 289, a tutto il 1962. Pazienza, si può dire conoscendo l'incapacità dello Stato italiano a spendere i nostri soldi; ma poi è avvenuto che nel Consiglio dei ministri del 7 aprile dì quest'anno 1973 è stato approvato un altro disegno di legge «per la difesa del suolo» che il ministro dei Lavori pubblici attuale, onorevole Antonino Gullottì deputato democristiano di Catania e Messina da quattro legislature, ci ha definito come «il primo provvedimento organico in materia di sistemazioni idrauliche e di tutela del territorio, nella storia del nostro Paese». Ma allora il piano trentennale orientativo per i fiumi che era stato varato nel 1952 dall'allora ministro dei LL.PP. Salvatore Aldisio, e del quale andava parlando dieci anni dopo il ministro Giacomo Mancini, in realtà non esisteva; o il ministro Gullottì ne era stato tenuto all'oscuro; chi lo sa. In ogni modo questo suo nuovo piano è stato dotato di mille miliardi da spendere in dieci anni (cento miliardi l'anno invece degli 84,9 che erano previsti dal vecchio piano trentennale) e ciò j non sembra una grande conquista, se si pensa alla svalutazione della lira nell'ultimo ventennio. Ciononostante il ministro Gullottì nel suo ottimismo ci ha dichiarato ancora che il suo disegno di legge « pone riparo ai gddinnsnancsamGnr1a gravissimi guasti provocati dai cataclismi passati, e predispone la difesa preventiva in caso di nuove calamità naturali ». Ma Dio le storni dal nostro capo, dato che il governo non sarebbe in grado di aiutarci nell'evenienza di nuove calamità naturali, perché di regola nell'occasione si apre subito un vuoto di autorità. Sarà rimasto nella memoria anche del ministro Gullottì quello che accadde nella sua isola dopo il pauroso terremoto del gennaio 1968. Non ci fu altro che un aggrovigliato conflitto di competenze ad ogni livello — statale, regionale e locale — senza che nessuno avesse titolo a dirimerlo. C'era, sì, un commissario generale nominato dal governo, il sottosegretario democristiano onorevole Remo Gasparì deputato dell'Aquila e Pescara, Teramo e Chieti, ma se ne stava a Palermo con le mani legate perché manca in Italia una legge che conferisca poteri straordinari ed unitaria autorità quando si tratti di proteggere la popolazione civile. Una proposta di legge intitolata « Norme sul soccorso e l'assistenza a popolazioni colpite da calamità » fu bensì presentata al Parlamento dal ministro dell'Interno Paolo Emilio Taviani il 23 marzo 1967, dopo l'alluvione di Firenze. Legge perduta In quei dodici articoli corredati da quattro tabelle vi si metteva ordine nei servizi della protezione civile, e tutto era previsto: attribuzione delle competenze, organi direttivi ed esecutivi, numero degli ispettori, coadiutori e vice-coadiutori; anche le « carriere » del personale subalterno. Poteva essere un buon provvedimento, ma vi si opposero i comunisti contestandone lo spirito informatore, che sarebbe stato « una concezione centralizzata e burocratica della difesa civile». Si direbbe, a rigore di logica, che per far fronte a una catastrofe l'accentramento dei poteri è la prima condizione dell'efficienza; ma poi la legge fu emendata dalla commissione per gli affari interni nelle sue riunioni del 10 maggio, 13 e 20 luglio 1967. L'11 ottobre il relatore per la maggioranza onorevole Vincenzo Gagliardi (de, Venezia) la presentò alla presidenza della Camera, e il 19 l'onorevole Pasquale Maulini (pei, Torino) depose una relazione di minoranza. E tutto allora si fermò nelle more dei grandi adempimenti parlamentari. Tra le vacanze e gli ostruzionismi (liberali e missini* erano allora impegnati a boicottare la legge elettorale per le Regioni), l'assemblea per tre mesi non trovò il tempo di esaminare le norme sul soccorso e l'assistenza alle popolazioni civili colpite da catastrofi; e quindi il terremoto siciliano arrivò primo. t Vittorio Gorresio Genova. La generosa gara dei giovani per ripulire le strade della città dopo l'alluvione dell'ottobre 1970 (Foto Moisio)