Un Fieramosca antiborghese dentro il salotto di D'Azeglio

Un Fieramosca antiborghese dentro il salotto di D'Azeglio "Prima,, dello spettacolo al Teatro Alfieri Un Fieramosca antiborghese dentro il salotto di D'Azeglio La rappresentazione curata da Trionfo per lo Stabile, protagonista Gianni Garko - Domani inaugurerà la rassegna internazionale a Firenze State freschi se credete di divertirvi, o di annoiarvi, con le aggrovigliate e incongruenti vicende che Massimo D'Azeglio congegnò nel suo romanzo sulla « Disfida di Barletta ». Certo, a cominciare dal titolo, la materia di Ettore Fieramosca c'è tutta nel nuovo spettacolo dello Stabile presentato in tre anteprime all'Alfieri prima di inaugurare, domani sera, la Rasségna fiorentina dei teatri a gestione pubblica. C'è persino la furibonda zuffa — bellissima, tra suoni e luci di acquario — fra tredici campioni del buon nome italiano contro altrettanti e arroganti francesi, e altro ancora. Ma se vi divertirete, o vi annoierete, sarà per motivi diversi. Aldo Trionfo, che ha firmato la regia, e Tonino Conte che con lui ha curato la riduzione, non intendevano tanto « sceneggiare » D'Azeglio, anche se poi l'hanno fatto, in chiave ironica naturalmente come una parodia di un diluviale , teleromanzo o di un fantastorico filmaccione, quanto mettere a nudo il meccanismo con il quale le società borghesi, in questo caso quella risorgimentale, costruiscono i loro miti, inventano i loro eroi, erigono monumenti agli uni e agli altri. E un monumento equestre campeggia infatti sulla scena, anzi è esso stesso la scena, spiritosa invenzione dello scenografo Luzzati. Sormontata da tre cavallóni da giostra in perpetuo movimento, e divisa in scomparti, o loculi, dove allegoriche statue s'atteggiano in posa per poi animarsi in modelli di comportamento per un italiano, dazeglianamente, « da fare», questa gran torta immacolata e rilucente di zucchero candito sta fra uh altare della patria e, per spiegarci, il ristorante Cambio o una confetteria torinese virtuosa e cicalona all'ora del tè. Ma è anche un salotto, con il suo scomodo divano Impero e un fatiscente valletto che s'aggira strasciconi con il vassoio dei pasticcini, e dal quale si dipana la rappresentazione. E' un salotto dell'aristocrazia niente affatto illuminata del 1820 — e sì che c'è stata la Rivoluzione — proprio quello che nel XVI capitolo dei Miei ricordi l'autore usa come un teatrino per uno « sketch )t in dialetto ohe dice molto, e il D'Azeglio ne era maliziosamente cosciente, sulla mentalità di allora. La scenetta è trasposta pari pari nello spettacolo, ma in un dialetto deliberatamente esasperato in puri fonemi che, se da una parte restituiscono il vacuo bla-bla di quelle cariatidi, dall'altra intralciano la comprensione E non dovrebbero. Non tanto perché il dialogo è signi¬ ficante, quanto perché avvia e giustifica la metamorfosi di quei decrepiti personaggi nelle belle statuine del Fieramosca scelte come emblemi ed esempi per il giovane cadetto (Odino Artiodi), all'inizio lo stesso ventunenne Massimo, che rimane sino alla fine in scena per ricevere l'ammaestramento di una storia, o della Storia con la maiuscola, che la Marchesa (Nerina Bianchi), dal suo divano, baderà che si svolga secondo un piano prestabilito, o anche soltanto desiderato, che beninteso non ha alcun riferimento con la realtà. Da qui precipita sullo spettatore tutto il ciarpame di un immaginario Medioevo che i nostri avi prolungavano sino al Cinquecento e oltre. E' un gustoso guazzabuglio di costumi e armature da melodramma, splendide invenzioni o rinvenimenti di Giancarlo Bignardi, che la colonna sonora rinforza con arie e cori dell'opera ottocentesca non senza qualche punta verso il verismo, c'è persino Mascagni. E si spiega: anche negli atteggiamenti, nelle «pose », dei personaggi, specialmente in quello di Vittoria Colonna, il regista anticipa una cultura e dei comportamenti dell'Italia fin di secolo o addirittura dei primi anni del Novecento. Ma più che anticiparli, sarebbe meglio dire che li ritrova, se non altro in nuce, nel salotto del D'Azeglio. Il molteplice intreccio dei piani narrativi e l'intercambiabilità dei personaggi, o dei loro stati d'animo, rientrano poi nei consueti procedimenti drammaturgici e registici di Trionfo che tuttavia, stavolta, li ha buttati e anche affastellati in un cimento più rischioso, e più affascinante, senza uscirne, è vero, con le ossa rotte, ma con qualche costola incrinata sì, se non altro per la sproporzionata lunghezza di uno spettacolo inzeppato, oltre che dai Miei ricordi, da passi del Pellico, del Balbo e dalle incredibili poesie declamate dalla Colonna, e non di costei che purè fu poetessa, ma di Diodata Saluzzo-Roero, verseggiatrice del primo Ottocento e abbastanza ignota oggi anche se il Foscolo la chiamò la «Saffo italica». Aggiungendosi alla congerie dei materiali scritti quella delle immagini — parecchie in verità di gran fulgore — che li traducono, l'accumula¬ zione degli effetti conferma il sospetto che il Risorgimento fu un periodo confuso e contraddittorio ma, ecco il rischio, lo spettatore può attribuire quella confusione e quella contraddittorietà non tanto al Risorgimento quanto alla rappresentazione offertante da Trionfo. Se poi magar questo non avviene, il merino è delle straordinarie capacita del regista di visualizzire magnificamente tutto con 1 intelligente collaborazione di attori che hanno, o prendano subito, dimestichezza con lui. Con.incerei, e non soltanto per cavalleria, con le attrici: Relda Ridoni è una perfetta Ginevra da feuilleton, Francesca Benedetti (Vittoria Colonna) mette a frutto il suo fascino e la sua versatilità moltiplicandosi nelle Dive di tutti i tempi e di tutte le scene, Cecilia Polizzi è una Zoraide piena di misteri e di trappole. Il protagonista, Gianni Garko, sembra uscito da quei western che interpreta sullo schermo ma anche s'ingegna, giustamente, ad apparire abbastanza « bète » per il suo « monumentabile » personaggio. E poi Franco Branciaroli, melanconico Borgia con la testa ribollente di fantasmi romantici e riminiscenze di uno Shakespeare di Guittalemme, un rilevato Franco Mezzera, un equilibrato Roberto Bisacco e ancora Alessandro Esposito, Ivan Cecchini, Valeriano Gialli, Achille Belletti, il Poiret, il De Boni, un Franco Ferrarone in notevole progresso, Silvia Ferluga e altri ancora.

Luoghi citati: Barletta, Firenze, Ginevra, Italia