Lecce, professori al sole

Lecce, professori al sole LE FABBRICHE DI SPOSTATI NEL MEZZOGIORNO Lecce, professori al sole All'Università, novemila iscritti, ci sono soltanto tre facoltà e tutte hanno per sbocco l'insegnamento: magistero, lettere, matematica - Ogni anno nel Salento si laureano in duemila per un mercato che non ha la possibilità di assorbirli - Si chiedono allora agli uomini politici doposcuola, corsi popolari per vecchie zie o, addirittura, nuove scuole medie superiori: destinate, in un dannato circolo vizioso, a sfornare altre matricole per l'Ateneo (Dal nostro inviato speciale) Lecce, marzo. Tra loro si chiamano « i manovali polmonari », e da queste parti sono molti, innumerevoli. Chi siano, me lo spiega con esempi di vita vissuta uno che già lo fu e che ora insegna come professore incaricato nell'Università di Lecce. Quando conseguì la laurea, con centodieci e lode, venne a trovarsi senza le cinquecentomila lire annue di presalario e cominciò l'estenuante lotta per trovarsi un lavoro qualunque, non importa dove: come scrivano avventizio in un ufficio pubblico, come supplente in una scuola, come vigile urbano provvisorio. Però non c'era niente da fare, dappertutto trovava che altre centinaia di laureati erano nelle liste d'attesa, da anni e anni. Infine, a furia di gomitate elettorali insieme con tutto il clan familiare, ottenne l'incarico di insegnare per poche ore la settimana e per poche decine di migliaia di lire il mese agli analfabeti in un ospizio per vecchi poveri. Parole vuote Un lavoro fatto solo con i polmoni, per l'appunto una « manovalanza polmonare ». I vecchi, una decina in tutto fra i settanta e gli ottanta anni, non avevano il minimo interesse a imparare; e durante le lezioni per lo più si assopivano o lasciavano che la mente divagasse. Come si fa a insegnare in quelle condizioni? Perciò l'insegnante lasciava che dalla bocca uscissero parole, solo parole e parole, senza un nesso, senza il più piccolo impegno; insomma, flato articolato in parola. Quello fu il suo primo lavoro di sottoproletario intellettuale. Siamo seduti in una saletta dell'albergo principale di Lecce dove hanno riunito per me alcuni professori e studenti dell'Università locale: e io qui non faccio che riassumere' i loro discorsi. Parla ora un altro ex manovale dei 'polmoni: anche per lui lo stesso assillo di trovare un posto dopo la laurea, la mobilitazione del clan familiare, le pressioni elettorali a diversi livelli, finalmente il posto: poche ore di lezione per settimana e poche decine di migliaia di lire il mese. Ma a chi insegnava? « Fu tutto un gioco delle parti. Mi dissero di fare presentare da un gruppo di donne anziane una domanda, nella quale si chiedeva che fosse istituito un corso di recupero per loro, in nome del diritto allo studio sancito dalla Costituzione. Raccolsi le firme tra vecchie zie e vicine di casa, il corso fu autorizzato e cominciai anche io a far lavorare i polmoni in una stanza dove poche donne anziane facevano lavori'a maglia o magari dicevano il rosario ». L'Università di Lecce è una scuola che produce interminabilmente altra scuola, a getto continuo, e qui espressioni come « zona di parcheggio », « serbatoio di giovani in cerca di prima occupazione », « fabbrica di disoccupati ii, assumono una evidenza immediata, tangibile. Qui le facoltà sono tre e tutte hanno per sbocco l'insegnamento: magistero, lettere e filosofia, matematica e fisica. Su circa novemila iscritti, quelli del magistero sono poco meno di seimila, quasi tutte ragazze, intorno all'ottantacinque per cento: Università, dunque, prevalentemente femminile e che ogni anno laurea quasi duemila professori per un mercato che praticamente non ha più capacità di assorbimento. Nell'ultimo concorso magistrale che si tenne a Lecce gli aspiranti erano cinquemila, i posti di maestro da assegnare appena centocinquanta. Secondo una recente indagine, solo un migliaio fra i giovani laureati a Lecce negli ultimi otto anni hanno trovato un impiego' più o meno adeguato al titolo di studio nel capoluogo e nella provincia. E la situazione continua a peggiorare. Fino a un paio d'anni fa un certo numero di neolaureati riusciva a trovare lavoro in scuole dell'Italia settentrionale oppure nella Sardegna, ma aàéèso anche lì non ci seno più, pósti disponibili. La via d'uscita Perciò, più aumentano i disoccupati, maggiore è nel Salento la pressione esercitata sugli uomini politici e sulle autorità per l'istituzione di doposcuola, di corsi popolari per vecchie zie o per vecchi poveri, o addirittura di nuove scuole medie superiori (in modo particolare istituti magistrali), destinate a produrre altre leve di matricole per l'Università di Lecce e altri disoccupati. E' un circolo vizioso, senza fine. A un certo punto domando quale contributo dia l'Università allo sviluppo culturale delle tre province del Salento: Lecce, Brindisi e Ta¬ ranto; e subito vedo le teste oscillare intorno a me in maniera sarcastica, sento il timbro delle voci inacerbirsi. I docenti nelle tre facoltà sono centosettantanove, ma pochissimi risiedono a Lecce; la grande maggioranza abitano a Bari, a Napoli o a Firenze, e a Lecce si fanno vedere molto poco..^. Ma perche pròprio a Bari e a Napoli e a Firenze?, domando io. Per, il semplice motivo che i professori ordinari, i cosiddetti « baroni », a Lecce sono appena dodici nelle tre facoltà; e i « baroni » baresi scelgono come incaricati loro pupilli baresi, lo stesso fanno i « baroni » di Napoli, lo stesso quelli di Firenze. Per esempio, a Magistero, su ottanta docenti solo una decina sono della provincia di Lecce. Gli altri, i settanta docenti pendolari, ambiscono di essere trasferiti a un'Università più vicina a casa loro oppure di maggiore prestigio, e considerano Lecce come un luogo di transito: perciò, anche nei pochi giorni l'anno in cui sostano a Lecce, la loro mente e il loro cuore sono altrove. E allora, data que- sta situazione, come è pensabile che si formino canali di comunicazione tra colóro che dovrebbero dispensare la cultura nell'Università e la città di Lecce? Una lenta spirale Fra i presenti nella saletta dell'albergo leccese alcuni sono democristiani, aJtrt" socialisti, ma in genere le loro opinioni concordano su questa Università tipicamente meridionale, depressa, e che tende a farsi sempre più «levantina e borbonica». Più che un circolo chiuso, fermo, siamo in una spirale che scende di anno in anno più in basso, trascinando con sé migliaia di giovani. Il fatto che i docenti siano pendolari, si sentano a Lecce come in una stazione di smistamento e mettano molto del loro impegno nell'ottenere una sede migliore, suscita di riflesso, tra gli studenti, un istintivo senso di distacco verso i loro professori. Gli uni e gli altri, professori e studenti, vivono in sfere ermeticamente separate, non hanno la possibilità di comunicare, in pratica i loro rapporti si esauriscono nel giorno dell'esame e al momento del voto. In breve, se assenti sono i professori dalla vita dell'Università, assenti sono anche gli studenti. Per costoro l'Università non è altro che il luogo dove farsi dare la laurea, « il pezzo di carta », col minore sforzo possibile. Ma perché mai, domando io, i vostri uomini politici, la vostra classe dirigente fanno una politica così gretta? Anche adesso le risposte sono precise e concordi. Dice uno studente: « Perché fare nuòve scuòle al solo scopo di sistemare un certo numero di disoccupati è la tattica elettorale più facile e anche di più immediato effetto. Ottenere l'apertura di un istituto scolastico in un convento abbandonato o in qualche altro vecchio edificio esige infatti uno sforzo molto minore che ideare e portare risolutamente avanti un programma moderno di sviluppo economico e di trasformazione sociale. A parte il fatto che non so se la nostra classe politica sia in grado di impegnarsi con competenza sui problemi di fondo della nostra società locale, la politica della scuola facile è quella che presenta un più sicuro tornaconto elettorale». Discorriamo da ore e all'improvviso domando ai miei ospiti se non intravedono la possibilità di spezzare la spirale discendente e invertire la tendenza: dico che dovrà pur esserci un modo per fare della loro Università un centro di progresso economico e democratico e non più un'incubatrice di tendenze per ora qualunquiste e domani fasciste. Questa volta, a rispondermi è un professore, ma gli altri sono così pronti nel confermare le sue opinioni, nel precisarle e nell'arricchirle di fatti e dati, che finisco col convincermi che anche qui, anche in una situazione così deprimente, esiste un nucleo vivo, non so quanto grande e di che peso, che medita e discute con sincero fervore su come tirare fuori l'Università dall'attuale palude. La loro conclusione è questa: bisogna disfare tutto per poi rifare interamente tutto dall'inizio. L'Università di Lecce nacque nel 1905-6 come Università privata, con fondi stanziati dagli enti locali delle tre-province salentìne e col nome di' «Università salentina». E' lì che bisogna tornare, a quel punto di partenza. L'idea iniziale era buona e resta ancora oggi valida: bisogna fare un'Università per i salentini, ossia un'Università che recepisca i problemi della regione, li elabori e lì porti davanti all'opinione pubblica, davanti ai partiti e alla classe dirigente. Solo con un'Università moderna e aderente alle esi¬ genze locali le nuove generazioni potranno aprirsi verso più larghe dimensioni culturali, .politiche, industriali, manageriali. Pei ciò, basta con le vecchie facoltà umanistiche che non danno nessuna cultura seria, nessuna preparazione concreta e viceversa infittiscono, esasperano una moltitudine di giovani destinati alla disoccupazione cronica o a lavori che non amano. D'un tratto, un giovane mi domanda se ho visitato l'unico edificio costruito appositamente per l'Università, il nuovo rettorato. Sì, l'ho visitato. Proprio quella mattina, alle dieci, era arrivata al rettorato la polizia dicendo di essere stata avvertita da una telefonata anonima che una bomba avrebbe mandato per aria l'edificio; e poi una seconda telefonata, sempre anonima, aveva detto che l'esplosione sarebbe avvenuta alle 11,15. « Sono scherzi dei fascisti », mi dice uno studente. Ma un professore torna a incalzarmi: « Tuttavia, lei ha visitato ugualmente il rettorato? ». Capisco le intenzioni polemiche di quella domanda insistente. Il rettorato è un edificio come ne ho visto di simili a Uppsala e in altre Università svedesi o canadesi, in paesi cioè dove scarseggiano luce e sole, e gli architetti cercano di fare loro posto nella maggiore quantità possibile, rìducendo lo spazio dei muri a tutto vantaggio delle vetrate. Ma a Lecce, nel tacco dello Stivale, il problema è tutto il contrario. C'è poi la questione dei marmi sprecati dappertutto, degli immensi saloni riservati a poche persone, delle scalinate superflue, dei corridoi grandi come navate e di tante altre incoerenze, derivate dall'ambizione di conciliare la modernità svedese con la pretenziosità spagnolesca. Ma a parte l'incongruo rettorato, in sedici anni l'Università di Lecce non è riuscita a costruire niente altro: le facoltà sono disperse qua e la in edi/lct d'affitto, talora in-condizioni scadenti. Eppure, dal 1969 due miliardi e mezzo di lire si trovano pronti per essere spesi in qualsiasi momento. E anche quel denaro che sta inerte a deprezzarsi mi viene indicato come un segno della sonnolenza che avvolge l'Università. Qui si vive alla giornata, e ogni giorno è peggiore del precedente. Nicola Adelfo" Lecce. Studentesse nella biblioteca dell'Università salentina: ma il pensiero è lontano (Foto Vergari-Team)

Persone citate: Foto Vergari