Perché Napoli non canta più di Luciano Curino

Perché Napoli non canta più LA TRADIZIONE SUPERATA DA MOTIVI "FURASTIERI,, Perché Napoli non canta più La crisi della canzone è legata ai mutamenti del gusto imposti dall'industria discografica - Ma "O sole mio" continua a fruttare denaro: la melodia quando nacque fu pagata 200 lire - Mancano buoni autori (Dal nostro inviato speciale) Napoli, 21 marzo. Dove c'era un angolo caro alla letteratura romantica, c'è oggi una rosticceria scintillante di cristalli e cromo, con la filodiffusione e la insegna «Kentucky fried chicken». Si chiede perché Napoli non canta più, perché la sua vena musicale si è esaurita. L'insegna di questa rosticceria potrebbe essere una risposta, con il «chicken», il pollastro, anche le «mmusiche furastiere» sono arrivate a Napoli, e la frastornano. Dispiace, ma è così e versare lacrime di nostalgia non serve. Già mezzo secolo fa la canzone napoletana era stata in crisi e la città si era subito preoccupata, aveva cantato «Tarantella internazionale», che pareva un affettuoso rimprovero o un richiamo patetico: «Tarante, ma tu pecche te si sbizzarrita, cu chesti mmusiche furastiere? Tarante, mò cu "Valencia" mò cu "Paquita", napulitano nun cante cchiù». La crisi era stata superata abbastanza facilmente, allora. Oggi pare non vi sia speranza, per diversi motivi. La decadenza della canzone napoletana è un problema di cultura e di costume, che merita di essere visto da vicino. Trovo varie spiegazioni del fenomeno. Mi si dice che, in Italia, l'unica canzone originale è stata quella napoletana, nata su un antico terreno popolare. La melodia arrivava da secoli lontani te la poesia assumeva sempre nuovi aspetti celebrando o rievocando qualsiasi avvenimento che toccasse l'anima o la fantasia popolare. «Ma con il tempo la canzone partenopea si è andata "nobilitando", ha fatto suoi i modi della lirica, acquistando quella melodiosità che per un po' di tempo ha conquistato il mondo. Ma, unificata l'Italia, la canzone napoletana non poteva diventare "nazionale". E ha preso a deperire. Al suo posto, praticamente, non è nato nulla di nuovo». Una spiegazione dà la casa editrice Bideri, la più antica ditta musicale di Napoli, Afferma che la decadenza non è colpa degli autori né è dovuta a mancanza di ispirazione, ma ha cause commerciali. «La crisi della canzone napoletana è causata dalla mutevolezza della moda. La crisi ha un nome preciso, si chiama industria discografica. Nella musica il passaggio da una moda all'altra è frenetico con l'industria discografica che, per fabbricare e vendere sempre nuovi prodotti, ha assunto un ritmo convulso. Dispiace dirlo, la verità è questa: Napoli ha perso il treno dei dischi, cioè dell'industria musicale, e adesso tenta di rincorrerlo». Le possibilità di raggiungerlo sono dubbie. La «Bideri», che ha più di 150 anni, è la «Ricordi della canzone napoletana», sta in via San Pietro a Majella, in un palazzo delle città vecchia. Vi si arriva per una ripida «scalinatella» che salirono Di Giacomo e Bovio, Di Capua e Costa e Russo, Gambardella e Nicolardi. Un bel gruppo, davvero. Salirono Tosti e Caparro, Albano e Raffaele Sacco che faceva l'ottico ed era anche poeta e scrisse le parole per «Te voglio bene assaje» che Donizetti musicò. Fu presentata a Piedigrotta nel 1835 e dieci minuti dopo tutta Napoli la cantava. Fu il primo grande successo, incominciò cosi la fervida stagione di «cantanapoli».. Nell'archivio della casa editrice Bideri ci sono oltre ventimila titoli, i più importanti della canzone partenopea, quelli «storici». Da «Torna a Surriento» a «I te vurria vasà», da «Voce 'e notte» a «O sole mio» e quando Capurro e Di Capua gli portarono questa canzone, Bideri rimase perplesso: «Che bella cosa 'na jumata 'e sole...» d'accordo, però non era una canzone d'amore: come l'avrebbe accolta il pubblico? Comunque, Bideri si lasciò convincere. «'O sole mio» fu pagato duecento lire e subito si impossessò di Napoli e dilagò in ogni Paese. «E' tuttora il motivo più esèguito nel mondo — è siato scritto — più della "Marsigliese", di "O Susanna", di "Polvere di stelle", della "Cucaracha" eccetera, e fino a quando scadranno i diritti d'autore, continuerà a rovesciare nella cassa della Bideri una valanga di quattrini». Cantanapoli vive ancora di rendita, ma il grande fiume melodico si è inaridito. Aldo Bovio, figlio di Libero il poe- lnnnnGpgimBph«'ednrvmnhdd'crtcmmrqd«nsGata r«Signorinella», «Cara pie- cina», «'O paese d'o sole». Re- ginella», «Guapparia» e tante altre) mi fa una diagnosi amara. «Ascoltami bene — di-ce — la nostra canzone è in crisi perché mancano i teatri. I cantanti superstiti devono andare nelle piazze della provincia. E' in crisi perché radio e televisione non le danno spazio. E bisogna anche ammettere che la "impresa" canzonettistica napoletana non si è saputa adeguare. Le case editrici del Nord si sono industrializzate, qui si continua a fare dell'artigianato. Mentre i l'industria di Milano e dintorni sforna in continuazione nuovi cantanti, a Napoli i nuovi vengono fuori, vedi Ranieri e Nazzaro, Di Capri e Gagliardi, però devono uscire per affermarsi, lasciando il genere napoletano per quello italiano». «E crisi, infine, perché mancano gli autori» dice Aldo Bovio. Ve n'erano ancora nei primi anni del dopoguerra, e hanno fatto cose belle, come «Anema e core» e «Munastero 'e Santa Chiara». Dopo anni di «Lily Marlen» e di «Colonnello non voglio pane...», la radio dava allegramente «Dove sta Zazà, uh, Madonna mia...» e la filosofia napoletana semplificava tutto: «Chi ha avuto avuto avuto, chi ha dato ha dato ha dato, scurdammoce 'o passato, simmu 'e Napule, paisà». C'erano ancora autori, allora, e «Luna rossa» l'ha scritta il proprietario di un albergo, dopo pochi mesi era un successo mondiale. Si continua ad esportare melodia napoletana ed è durato fino alla fine del Cinquanta. Poi, è incominciato il declino. Mancavano i teatri e «cantanapoli» è entrata nei night clubs portatavi da Carosone, Van Wood, Di Capri. Giacomo Rondinella è andato a cantare per gli italiani d'America, là è ancora una «vedette». Mi dice Bovio: «Gli autori non hanno saputo aggiornarsi. Murolo e mio padre seppero Staccarsi da Di Giacomo. Questi, invece, non sanno cantare in modo nuovo gli eterni sentimenti. Parlano sempre di catene, catenelle, io piango tutta la notte, dammi un bacio e poi muoio. Cose che non fanno più breccia tra i giovani». «Tutt'al più, Napoli dà ancora "canzoni di malavita"» dice Bovio. Fino a una quarantina di anni fa si chiamavano «canzona 'e giacca». Per la bella canzone tradizionale, il cantante andava in scena con lo smoking, andava invece con la giacca di tutti i giorni per la canzone che descriveva tipi e caratteri d'ambiente strettamente locale, un genere drammatico, spesso erano canzoni di «guapparia», n ma positive, sempre morali. A modo suo il guappo faceva giustizia nel quartiere, proteggeva i deboli, faceva sposare la ragazza sedotta. Oggi non ci sono più guappi, ci sono invece teppisti che cercano di imitare il gangster americano. Gli autori delle «canzoni di malavita» si ispirano alla cronaca nera, e non parliamo della musicalità dei versi. La linea è un ritmo di «beguine». I cantanti di questo «genere», Mario Merola un ex scaricatore del porto e Pino Mau¬ ro, in due anni hanno venduto due milioni di dischi, da Napoli in giù, anche in Sicilia. Dischi che arricchiscono i negozi della periferia napoletana, ma che non si trovano in quelli del centro. «E' un fatto — dice Bovio — Merola canta per la zona Ferrovia, dove c'è il pubblico della provincia, più semplice, che ama sensazioni forti'e immediate, ma è anche la zona del delitto di Pascalone 'e Nola e di altre storie nere. Mauro, invece, canta il repertorio classico per via dei Mille, per la Napoli-bene». La canzone divide in modo netto la Napoli della Ferrovia e quella di'via dei Mille. Le due Napoli si ignorano, c'è un diaframma attraverso il quale le canzoni non passano. Resta così il vecchio repertorio oppure ci sono canzoni nuove, ma che nulla hanno a che fare con «cantanapoli». Intanto, scompaiono i mandolini, ci sono le chitarre elettriche. E' proprio morta, dunque, la canzone partenopea? Secondo la «Bideri», sostenere che la vena poetica si è impoverita è una sciocchezza, «oggi sarebbe possibile trovare eccellenti canzoni napoletane, non meno belle di quelle di ieri, se questo rendesse, ma non è un buon affare, manca la domanda». Secondo Aldo Bovio: «La canzone napoletana risorgerebbe se avesse un suo teatro, come quella francese ha Olympia, per farsi sentire dai turisti, per stimolare cantanti e autori». Ma c'è chi è più pessimista, Quale fonte di ispirazione può essere la rosticceria del «Kentucky fried chicken», il mare di Mergellina inquinato e gonfio di detriti, e a chi verrebbe in mente di scrivere «Quanno spunta la luna a Marechiaro, pure li pisce nce fanno l'ammore» vedendo l'incrociarsi delle petroliere? A Santa Lucia è facile trovare i contrabbandieri e ovunque le strade sono un inferno di automobili e di motorette, c'è sempre qualche Agostino 'o pazzo. Ci si chiede: «C'è ancora un posto che i rumori non rendano infrequentabile?». No, questo posto non c'è più. La realtà di oggi non può davvero ispirare i motivi tradizionali della canzone napoletana. Diceva Libero Bovio: «Io so' napulitano e si nun canto muoro». Oggi si sente ancora cantare, ma è «mmusica furastiera». Luciano Curino Peppino di Capri è il cantante che più "simboleggia" la Napoli canora dei nostri giorni