Lavorare

Lavorare Lavorare Nel maggio scorso si svolse a Nizza un congresso dei tecnici di Pax Romana ed uno degli argomenti era la risposta alla domanda « Perché e come si lavora? » (gli alti sono ora pubblicati sulla rivista Tecnica e Uomo). In altri tempi non ci si sarebbe posta la domanda del perché si lavori. Nell'ultimo numero quadrimestrale di Comunità è uno studio di Giancarlo Lunati, dirigente alla Olivetti, continuazione d'una monografia apparsa qualche anno fa, dal tema « Le motivazioni al lavoro »: ricchissimo di dottrina sociologica ed anche di richiami storici, con la conclusione che le spinte religiose o quasi religiose (entusiasmi nazionali o rivoluzionari) che portino ad offrire il lavoro a Dio od alla « causa », si esauriscono rapidamente, che di solito si lavora per guadagnare. Ma l'incentivo salariale ha un limite, nella scelta tra maggior guadagno con maggiore fatica, e minor guadagno con più tempo libero. Non sono sociologo, ma penso non si possano fissare regole che valgano per ogni tempo; gli impulsi umani variano secondo i momenti. C'è sempre stato un lavoro schiacciante, prostrante, che l'uomo non accetta che per sovvenire ai bisogni elementari; le macchine hanno ridotto molto le aree di questo tipo di lavoro; da tempo non si vede più lo spaccapietre ai margini delle strade. Quando si parla di lavoro tedioso, contrapposto al lavoro creativo, che dà gioia (talora tormento mescolato a gioia), vediamo che le cose già mutano; la qualifica di tedioso non è costante rispetto al medesimo lavoro. Ricordo umilissimi impiegati, copisti, addizionatori di numeri allorché ancora non si usavano le calcolatrici, ufficiali postali allo sportello delle raccomandate, che paventavano il collocamento a riposo, avrebbero voluto continuare fino a che potessero quel lavoro; e molte volte non c'era alcun movente economico, potevano ritirarsi in una casetta di campagna che avevano ereditato, non avevano l'assillo del bisogno; avevano invece quello della noia. Ma oggi vediamo alti funzionari, che hanno un posto che dà loro ogni soddisfazione, e quella gioia del potere che per molti uomini è la maggiore delle gioie, profittare della legge sui combattenti, delle norme di sfollamento, per ritirarsi nel pieno del loro vigore. Sicché quando mi chiedono di forzare il mio pessimismo, e di trovare una bella conquista del nostro tempo, affermo che e stata la vittoria sulla noia, gli uomini che non temono più di annoiarsi; se il merito è della te levisione, occorre attribuirle il primo posto tra le conquiste umane. Lavoro creativo: oggi pensiamo solo a quello dello scrittore, dell'artista; raramente di qualche professionista (la nuova operazione chirurgica, la difficile tesi di diritto fatta trionfare). Ma in epoca non remota quanti e quanti sentivano creativo il loro lavoro; artigiani che si compiacevano del paio di scarpe ben rifinito, della bella legatura di un libro che usciva dalle loro mani, umili rammendatrici orgogliose di aver fatto scomparire il «sette», e poi contadini fieri della bella frutta, del buon vino che usciva dalla loro opera. Le spinte ideologiche possono sugli uomini più delle fatiche fisiche; si comprende che rifiutando una certa struttura sociale appaia sgradevole lavorare per un « padrone », anche se anonimo, costituito da centomila piccoli azionisti. Ma a cavalcioni del 1900 equivaleva a una affrancazione non già lavorare di meno, ma lavorare per la cooperativa cui si apparteneva, o per la collettività. Le municipalizzazioni, la statizzazione delle ferrovie, non vennero considerate allora come mezzo per lavorare di meno o essere meglio rimunerati, bensì come mutamenti che davano la soddisfazione di non lavorare più per un padrone, ma per la col lettività di cui si era parte; era come lavorare per la propria famiglia. Diminuzione delle ore di lavoro, aumento della durata delle ferie, abbassamento del limite di età per il pensionamento; sia pure, e anche (ciò che meno persuade) per i lavori che non richiedono fatica tisica né soverchia attenzione; vada presto in pensione chi non teme lu noia né la decadenza che molte volte abbiamo visto seguire all'arresto dell'attività. Ma c'è un interesse collettivo che segna il limite invalicabile. 1 popoli che non si piegava¬ noprrescporamscroretadbnbudcm10m11plizcuclipmtplagdntpagdssdlnzsc no alla coltivazione della terra, preferivano vagare di regione in regione vivendo di caccia e pesca e altresì di preda (ciò ch'era possibile con un'umanità molto rada), dovettero ad un certo momento o mutare costume o scomparire. L'abominevole lavoro degli schiavi potè arricchire un piccolo numero di piantatori, ma non creò delle grandi potenze economiche, non un benessere diffuso. La formazione della potenza industriale, del benessere americano, segue con un buon distacco l'abolizione della schiavitù, ed appare accentuata nei paesi che per primi l'abolirono. Quel benessere 10 scorgiamo come effetto di una morale protestante che esaltava 11 lavoro, sia pure come mezzo per la vita collettiva su più alto livello, e come frutto degli sforzi degl'immigrati, desiderosi di conquistare il loro posto al sole. Le miniere d'oro e d'argento un tempo (anche dove non c'era colonialismo né regimi di piccoli tirannelli), oggi il petrolio, possono rendere ricchi gli erari; ma non riescono a creare un alto livello di vita, a segnare un progresso sociale (anzitutto nella cultura, nelle concezioni, ne gl'ideali), dove non c'è il desiderio diffuso del lavoro, del benessere conquistato e conservato giorno per giorno con le prò prie opere. L'Italia salì in fortune fino a che ci fu questo sforzo; era giusto che fosse accompagnato dall'esigenza d'una maggior giustizia sociale, d'una migliore distribuzione dei redditi, da graduali nazionalizzazioni, pur che l'azienda nazionalizzata non venisse considerata il pozzo senza fondo, quella dove i passivi sono colmati dall'erario che sacrifica per essa bisogni prima¬ ri, scuole, ospedali, carceri che offrano possibilità di rieducazione; pur che non sia il rifugio delia clientela dei politici. Ma occorreva che quello sforzo non cessasse. L'Italia ha una natura povera; chi viaggia per il Mezzogiorno vede molte distese pietrose; pochi sono i terreni fertili; non abbiamo petrolio, non prodotti minerari se non scarsissimi. La stessa configurazione geografica allungata, con isole, non aiuta. Chi viaggia dalla Calabria al Piemonte, e poi da Basilea aiOlanda (costeggiando il Reno, ottima via mercantile) si rende conto di quanto la costruzione e la manutenzione di ogni chilometro di ferrovia debba essere più oneroso per noi. Tuttavia due volte, ai bei tempi in cui la lira fece aggio sull'oro e in questo secondo dopoguerra, eravamo riusciti ad inserirci nel tessuto dell'Europa agiata, quella della cultura diffusa, di un benessere facile a cogliere. Siamo di nuovo scivolati; stiamo ancora constatando che tra i popoli non si dà la generosità del ricco verso il povero, che ciascuno deve fare per sé. Possiamo riguadagnare il terreno perduto, come possiamo continuare a scivolare indietro, a consumare quel che si era accumulato in passato, ad illuderci con buoni salari pagati in biglietti che perdono ogni giorno il potere d'acquisto. Certo il buon esempio deve venire dall'alto; e non è consolante sentire che i parlamentari disertano le sedute, e che non c'è eletto del popolo, in ogni Camera o Consiglio, che sia contento della sua indennità. Meno che mai lo è il successo delle leggi di sfollamento.

Persone citate: Giancarlo Lunati

Luoghi citati: Basilea, Calabria, Europa, Italia, Nizza, Piemonte