Più efficienti "sistemi di lavoro,, sono decisi dai portuali a Genova di Mimmo Candito

Più efficienti "sistemi di lavoro,, sono decisi dai portuali a Genova Nella conferenza della Compagnia unica (6 mila soci) Più efficienti "sistemi di lavoro,, sono decisi dai portuali a Genova Hanno rinunciato a situazioni particolari di privilegio - Non ci saranno più le sezioni, ina "squadre di lavoro" con i giovani in stiva e i più anziani a terra - Distribuzione collettiva del guadagno - "Ora tocca al porto modernizzarsi" dicono i lavoratori. "O saremo in grado di ricevere le merci con le navi moderne, o scompariremo" (Nostro servizio particolare) Genova, 15 gennaio. L'immagine tradizionale del portuale con il gancio o la coffa lascia le calate. Il pannello elettronico e gli elevatori meccanici diventano i suoi nuovi strumenti di lavoro. Lo hanno deciso loro stessi, i portuali di Genova, nel corso di una «Conferenza di compagnia», dove il dialetto genovese ha bertucciato tra le righe dei discorsi, ma anche dove «il senso di responsabilità, il coraggio e l'impegno» sono stati il riconoscimento che il sindaco Piombino ha manifestato a nome dell'intera città. Il porto è la più grande industria di Genova. Direttamente o indirettamente, esso provoca un movimento annuo di circa mille miliardi di lire: se lo considerassimo un'azienda, sarebbe ai primissimi posti nel fatturato dei colossi della nostra economia. Ma Genova è in disarmo, i tecnici parlano di «degrado relativo»: e il porto con la città. Questa improvvisa scossa (qualcuno ha parlato di «rivoluzione») rompe ima linea di tendenza consolidata da industrie che chiudono o si trasferiscono, da un saldo demografico costantemente in negativo, dal calo dell'indice di popolazione attiva, dai mancati investimenti delle partecipazioni statali, dalla crisi edilizia, dalle delusioni politiche. In concreto, la capacità e la chiarezza dei portuali stanno in questo: essi decidono autonomamente di ristrutturare la propria organizzazione di lavoro e di annullare le situazioni particolari di privilegio, nell'interesse generale. «Abbiamo lanciato una sfida all'opinione pubblica, e alle forze politiche». Il porto è un mondo a sé. Neanche a Genova tutti sanno veramente come ci si viva, come ci si lavori; anche se 25 o 26 mila dei 280 mila genovesi considerati statisticamente attivi esercitano il loro mestiere nel porto o per il porto. La sopraelevata, che taglia la città in due fette, è solo il segno simbolico del distacco di queste due Tealtà, quella,, della stretta fascia litoranea e il resto di case, vie, piazze, negozi, industrie. In porto, l'avviamento al lavoro è assegnato in esclusiva alle Compagnie, cooperative sorte agli albori del secolo per regolamentare l'eccedenza di mano d'opera sulle calate rispetto all'offerta di lavoro. La più importante a Genova (e la più forte in Italia) è la Compagnia Unica Lavoratori Mei ci varie: più di seimila soci, parecchi miliardi di fatturato, un organismo culturale, un mercato interno di generi alimentari e casalinghi, un intero quartiere costruito su in collina, a Granarolo. La Culmv è retta da un consiglio d'amministrazione di cui fanno parte: un console, due viceconsole e i serre dirigenti delle sezioni in cui è n , diviso il lavoro di imbarco e sbarco — la «Sangiorgio» per i lavori di bordo, la «Canzio» per i lavori di terra, i commessi di bordo, i pesatori, gl'imballatori, i cassai e i portabagagli. Si diventa socio della compagnia dopo aver lavorato per due anni in porto come «avventizio» (i ruoli sono stati riaperti dal 1* di questo mese: erano congelati dal 1964). L'avviamento al lavoro avviene attraverso le «chiamate»: tre volte al giorno, in piazzale S. Benigno, ai piedi della Lanterna, ciascuna delle sette sezioni «chiama» il numero di lavoratori che servono in quel turno per le navi ormeggiate in porto; ogni lavoratore ha un proprio numero di matricola, e il «caporale» legge al microfono i numeri del ruolino che gli occorrono al momento: qualche giorno lavorano tutti, qualche giorno la richiesta è bassa, e bisogna stare ad aspettare il turno successivo, sperando. Questa situazione poteva ancora andare bene fino a quando il traffico marittimo si svolgeva secondo le tradizionali tecniche, con i «barchetti» che a migliaia solcavano il Mediterraneo. Oggi che l'innovazione tecnologica ha profondamente trasformato questo settore dei trasporti, il porto ottocentesco e il lavoro artigianale non bastano più. L'analisi del console Agosti è impietosa: «Non ci sono alternative: o il porto è in grado di ricevere merci trasportate con i nuovi vettori, oppure il porto, semplicemente, non riceverà più che pophe merci, e fino a quando esisteranno le navi tradizionali; perché i nuovi vettori sceglieranno altri scali ». I numeri parlano secco e chiaro: dal 1963, le giornate lavorative in porto sono diminuite del 34 per cento, mentre il tonnellaggio delle merci manipolate è aumentato del 15 per cento, grazie all'introduzione dei nuovi sistemi. Il risultato è stato anche una pesante «disoccupazione tecnologica» (dagli 8 mila soci del 1963 si è passati ai 6 mila attuali), e il processo rischia di assumere ritmi impressionanti: negli ultimi tre anni, il totale delle navi tradizionali che hanno operato nello scalo genovese è precipitato dall'83 al 45 per cento, quello delle navi specializzate ha fatto un balzo dal 17 al 55 per cento. I portuali hanno capito, e scelgono la strada della specializzazione. «La suddivisione della Compagnia in sette sgfèfcsialtcsncir sezioni — ha riconosciuto Agosti — costituisce orinai un fatto anacronistico. Oggi non è più possibile distinguere il facchino e lo stivatore». Un ciclo storico si chiude, anche se non mancano i mugugni. L'abolizione delle sezioni, infatti, porterà gradualmente alla nascita della squadra di lavoro (il rito della «chiamata» individuale scomparirà), con personale amalgamato e senza le vecchie distinzioni: non più cassai, pesatori o chiattaioli, ma i più giovani in stiva e i più anziani a terra. In tal modo, il guadagno non verrà più diviso all'interno dell'una o dell'altra sezione (per cui c'era, ancor oggi, chi guadagnava più e chi meno solo per il fatto di appartenere all'una o all'altra sezione), ma si avrà un «collet¬ tivo di Compagnia», cioè una distribuzione collettiva di guadagno indistintamente tra tutti i soci della Culmv. Ma il rinnovamento e la specializzazione del lavoro non bastano, se il porto non cambia. Oggi l'indice di produttività di Rotterdam è il doppio di quello di Genova; ma Genova è un porto di 300 ettari, ora come venti anni fa, mentre Rotterdam in venti anni si è ampliato di oltre 7 mila ettari. Pietro Genco, dell'Ilres (il più avanzato istituto di ricerche ligure) descrive così la situazione: «Mancano spazi e mezzi sulle banchine, e se ci fossero mancherebbero i mezzi di trasporto terrestre per sgomberare la banchina alla velocità necessaria. I lavoratori del porto godono indubbia¬ mente di una situazione di privilegio, ma il quadro in cui si muovono non rende praticamente possibile una loro maggiore produttività». Il male è cronico. Il rimedio dev'essere energico e adeguato. Agosti parla schietto: «Non si tratta più di porre in atto iniziative settoriali, il problema investe gli aspetti di fondo della politica portuale: quello degli investimenti e quello della gestione del servizio». Per gl'investimenti: concentrare gli stanziamenti nei pochi porti italiani che contano; per la gestione del servizio: fare del Consorzio e della Compagnia le uniche strutture del porto — al Cap (il consorzio portuale) l'assunzione in proprio della gestione dei servizi; alla Compagnia, la programmazione e l'assunzione delle operazioni di sbarco e imbarco merci. E' questa la vera «sfida» dei portuali. Non è mancata la contestazione da sinistra (.«Questa, come tutte le ristrutturazioni, si fa sulle spalle della classe operaia»); certamente più numerose sono state le voci a favore, come l'efficace intervento, metà dialetto e metà lingua, di Gino Della Casa, dirigente della sezione pesatori: «L'efficienza non vuol dire sfruttamento; mi sento sfruttato solo se non mi pagano per quanto lavoro, non se lavoro e produco. Noi non vogliamo fare di un giocattolo a molla un giocattolo a pila, vogliamo invece essere i protagonisti del nostro lavoro, vogliamo un ruolo più adeguato alle nostre forze reali». A questo punto, la prima risposta tocca al Cap. Il presidente Dagnino nei mesi scorsi aveva invitato i portuali «a inventare il loro futuro». Lo hanno fatto. Dagnino non potrà essere da meno: in questi anni, di lui, filosofo capitato per le strane vicende della politica a interessarsi di rinfuse oli e merci varie, è stato detto che «è l'unico a muoversi in una città che è ferma». Mimmo Candito Genova. 'Portuali in attesa della «chiamata» per i turni di lavoro (Tclefoto)

Persone citate: Agosti, Canzio, Dagnino, Gino Della Casa, Mei, Pietro Genco, Sangiorgio