Felicità di Giovanni Arpino

Felicità I BAMBINI SCRIVONO Felicità Ricevo una lettera con quindici definizioni di « felicità ». Tra le tante carte festive, colorate, spesso disperatamente eccentriche, quasi sempre casuali, questo foglietto di quaderno, con quattro fori lungo il margine sinistro per fermagli ormai inutili, è commovente c da meditare. Sono dichiarazioni di ragazzi, forse ancora bambini, d'una sconosciuta classe « I M » torinese. Già la sigla suggerisce molto sulla dcccntrazionc periferica, sulla difficoltà di stabilire un contatto. Oltre il grumo dei cosiddetti centri storici le metropoli diventano un labirinto borgesiano, il possibile volto amico si perde nei vapori di chissà quale fermata tranviaria. Lu felicità c essere in una poltrona c leggere una fiaba (Gianni,). La felicità è una casa dolce c bella (Carla). La felicità è uno scoiattolo che mangia noci (Mariolino). La felicità è una rosa che sboccia (Lucrezia). La felicità è giocare nei prati (Anna Rosa). La felicità è essere amico di tutti (Marco). La felicità è la primavera (Angelo). La felicità è un cuore canarino (Lina). La felicità c vedere t fiori c pensare d'essere uno di loro (Antonio). La felicità c un pezzo di pane diviso fra tutti (Pinuccio). La felicità c uh cesto di uva (Matilde). La felicità è hi prima nevicata dell'anno (Anna Maria). La felicità c nuotare nel mare con il sole clic splende (Claudio). La felicità è dormire in un letto soffice (Sergio). La felicità c un gattino morbido che si lascia accarezzare (Laura). Tattile, visibile, concreta, estroversa, ecco la « felicità », parola difficile, problema infinito. Una cosa, una situazione, un momento. Ricordo un breve saggio di Nicola Abbagnano (del maggio '64) che si occupava della felicità c indicava il brivido provocato da questa parola: e. In realtà t filosofi si vergognano oggi di parlarne e ne ignorano perfino il concetto. La rigettano, forse, nel limbo dei sogni di ogni Giulietta che cerca il suo Romeo... e preferiscono parlare di "valori" o di "beni" come cose indipendenti dal desiderio umano (troppo umano) della felicità. Eppure proprio su questo desiderio gli un tic/li impiantavano l'intera morale c solo discutevano se In felicità consistesse nel piacere o nella virtù... ». 11 termine fa paura, dunque. E noi abbiamo accettato più questa paura che lo stimolo necessario a contrastarla, sondarla, forse vincerla. Felicità è uno dei sogni e dei « segni » innominabili, relegati entro un limbo o petrarchesco 0 psicanalitico. Ma le Laure c 1 Mariolini non sanno, usano la parola piegandola a seconda d'una essenza elementare c diversa. Certo, Thomas Jefferson fu l'ultimo uomo ad adoperare queste quattro sillabe, quando nel 1776 dettò la Dichiarazione dei diritti dell'uomo clic aprì la storia della rivoluzione americana: tra i diritti inalienabili, come la vita e la libertà, inscrisse la « ricerca della felicità », Fu detta un'idea « geniale », ma chi osa ricordarla? Le Laure c i Mariolini, lontani da ogni caramcllosità didascalica, vedono o almeno intuiscono che questa ricerca è possibile, anzi neppure ardua: basta un prato, una casa, una poltrona, uno scoiattolo, cioè i simboli d'una situazione ambientale e psicologica, cioè i supponi d'un vivere, e nemmeno il vivere. E' la reinven» zione d'un proverbio, il sentirsi al « grado zero » dell'esigenza esistenziale. La lclicilà non è uno schema, ma un obbiettivo da vedere, toccare, umilmente partecipando della sua grazia. Viene il dubbio che molte parole e relativi concetti si siano sbriciolati per un eccesso di critica. E che riproporli con intatto pudore provochi ironie, irritazioni. E' altrettanto evidente che la parola in sé, recuperata, non « può agire» per intima potenza. Ma già eliminarla, o girarle attorno, o ridurne il prestigio, sono interventi che umiliano il dialogo, il vocabolario, la tensione insita ne! linguaggio. La felicità « può s essere uno scoiattolo, e «può?, identificarsi nel nuotare sotto il sole. Diventa un atto, non un traguardo 0 un programma. Di qdsicopnbpczè dqhqsorestFsdptnggespcendmgvcnriscgpNsctmgUrc ò i a e a u a qui la lezione delle Laure c dei Mariolini, che in innocenza si sporgono sulla vita ma qualcosa sanno, intuiscono, una poltrona che c'è o non c'è, una nevicata clic può venire e subito dopo lordarsi sui marciapiedi cittadini. La letterina della maestra che accompagna le dichiarazioni dei ragazzi della « I M », è ispirata ad altrettanto candore. Ma si fa acutissima quando dice: «La mia classe ha deciso di regalare felicità, quelle piccole felicità che spesso ci si dimentica di possedere (l'essenza del nostro dono sta nel ricordarle agli altri ) ». Forse qui sta il segreto — non strumentale c non artificioso — della disposizione alla felicità, per quindici volte intravista o trovata. Torniamo così alla definizione di felicità come concettoguida, di cui parlava Abbagnano: un catalizzatore di equilibrio c di capacità espressiva, che ogni uomo dovrebbe poter amministrare entro la cornice del mondo civile, ove essere felici non è un attimo, non è il « sogno delizioso » dell'adolescente, ma uno strumento di disposizioni psicologiche che l'ambiente può e deve sostenere. E tuttavia: la felicità è un cesto di uva. Una « cosa » che nessun diavolo può combattere e che a nessun Faust viene in mente. A questo punto risulta scavalcata, incenerita, anche la parola; rimane l'immagine, la palpazione lunga c privata di questa immagine. Nella galassia oggettuale e gestuale che ci circonda, quel cesto di uva è un tutto, che tutto esprime mentre lo si mangia (o si sogna di mangiare). Perché elucubrare invano? Una zona felice esiste, basterebbe rimirarla come si deve: c adesso ricordo le lunghe file di alberi brinati intravisti da un treno, persino un sole tagliente su New York all'alba, il fiato caldo che esala da certi cibi in campagna, il rito intorno a una bottiglia, una stretta di mano amica. Erano e sono momenti felici, perché umani, non richiesti, a riprova che un nocciolo di felicità è chiuso in ognuno come l'osso nella pesca. Un solido grumo attivo, del quale bisognerebbe non dimenticarsi. La macstrina Marisa Ferrerò scrive da lontano, da una zona torinese cifrata 10138. Il suo cartoncino festivo, che avvolge le quindici dichiarazioni delle Laure e dei Gianni, è pavesato con qualche ramo verde e fiori di glicine un po' incongrui. Il cesto d'uva, la primavera come la nevicata, sono lontani dalla nostra sommossa quotidianità. Ma è proprio questa lontananza che vale: per chi vuole intenderla come ricerca c non come distacco o itinerario impossibile, 0 ipotesi di nuove torture dialettiche. E' certo innaturale (anche protervo a pensarci) l'invocazione per uno stato d'innocenza cui non abbiamo più diritto. Ma negare o ostacolare l'autentica forza creativa che esiste in un progetto di felicità, in un cesto d'uva, qui lorse è il peccato. Contro ciò diesiamo; non contro il divino, che ebbe l'astuzia di lasciarci liberi. Giovanni Arpino

Persone citate: Abbagnano, Anna Maria, Anna Rosa, Faust, Mariolini, Marisa Ferrerò, Nicola Abbagnano, Thomas Jefferson

Luoghi citati: New York