Da Hitchcock all'avanguardia

Da Hitchcock all'avanguardia LE PRIME VISIONI CINEMATOGRAFICHE Da Hitchcock all'avanguardia In "Frenzy" il celebre regista di "gialli" ritrova la sua forma migliore, tra intreccio e ironia "Salomè" di Bene, "pastiche" su un tema biblico - "Decamerone nero", sexy anche in Africa Frenzy, di Alfred Hitchcock, con Jon Finch, Alee McCowen, Barry Foster, Anna Massey. Inglese, a colori. Cinema Ariston e Doria. Con un ritorno di grazia, che molti nostri veterani gli possono invidiare, Hitchcock ha risfoderato tutta la sua bravura* in questo Frenzy («Frenesia», da un romanzo di Arthur La Bern, adattato allo schermo da Anthony Shaffer): un «giallo» ossia un meccanismo perfetto, dove «brivido» e ironia (una sottesa ironia che in mezzo a tanto cinema criptico-problematico sembra investire le acquietanti certezze del «poliziesco») si fanno le giuste parti. Inglese, anzi londinese fino alle unghie, tanto che chi conosce bene Londra e specialmente il quartiere dello Strand si divertirà di più, Frenzy, quanto al soggetto, è un thrilling dei più consuetudinari, il che fa spiccare meglio quel genio dell'applicazione che caratterizza il cinema hitcheockiano. Un maniaco sessuale, grossista di frutta e verdura al mercato di Covent Garden, fa strage di giovani donne che strangola con le sue deliziose cravatte. E' il più insospettabile degli assassini, al modo stesso che il più sospettabile degli innocenti è invece l'ex marito della seconda vittima, Blaney, già pilota della Baf, ora alla deriva. Sfugge per un po' alla polizia, finché non chiede asilo proprio al sadico che perfidamente lo denunzia. Processo e condanna. Ma al commissario che aveva svolto l'inchiesta, resta qualche dubbio; e contemporaneamente a Blaney, frattanto evaso dall'infermeria del carcere, egli piomba sul colpevole cogliendolo con le mani nel sacco. Tutto qui; ma il racconto non fa una grinza; e il sapersi fin da principio chi è il colpevole non fa altro che rilevare la maestria di Hitchcock nel condurre i gialli allo scoperto, accentrando l'interesse sulla bontà del congegno e il gusto delizioso dei particolari (qui, tra gli altri, le cravatte). Da antologia la sequenza in cui il maniaco, che ha lasciato nelle mani della terza vittima una spilla che lo potrebbe tradire, lotta col rigor mortis per riaverla; e il cadavere è nascosto in imo dei sacchi di patate trasportati da uh camion, e a un certo punto ne scivola giù, sotto gli occhi esterrefatti della polizia che insegue. Non meno godibile la figura del commissario, quintessenza di civiltà britan nica, oppresso da una buona moglie che segue un corso di gastronomia continentale e ne impone gl'imparaticci al disgraziato consorte. Anche questo è un motivo vecchio, ma rilustrato dall'applicazione. Ottimi gli interpreti quasi tutti d'origine teatrale, entrati con gusto e intelligenza nella disciplina d'un film che s'ispira a un artigianato di alto livello. * * Salomè di Carmelo Bene, con C. Bene, Verushcka. D. Luna, L. Mancinelli. Italiano a colori. Cinema Centrale. dintuféeunchte quticvazioProcelloso e beffardo, destinato a irritare come e più dei precedenti, l'ultimo Bene (presentato a Venezia) trova in una sala d'essai la sua nicchia naturale e fors'anche pacifica. Salomè, ripetendo il già detto, è una sorta di bazar della dissacrazione (è infatti tutto colorato d'Oriente) in cui l'indubitabile ingegno del regista e mimo si abbandona a tutti gli estri combinatori e scombinatori di cui è capace, qualunque sia il tema trattato. Il risultato da una parte esalta il cinema per le sue qualità motrici, visionarie e coloristiche; e dall'altra lo deprime, desiderandosi, in tanta furia d'espressione, un rallentamento in cui l'espressione spicchi meglio, o addirittura l'immobilità che permetta di gustare il quadro in tutti i suoi particolari. Tipico film di avanguardia va visto con occhio acconcio e una disposizione mentale quanto più possibile lontana dalla ragione. Non c'è principio né mezzo né fine: staremmo per dire che Salomè si esprime tutto in qualunque punto uno lo vede: nel vivido impasto delie forme e dei colori agitati come dentro un caleidoscopio a gittata corta (trionfano primi e primissimi piani), nel perpetuo giro di battute demenziali (ripartite fra Erode, lo stesso Bene, la moglie Erodiade, Lydia Mancinelli, e altri) che sempre ritornano ma con diverse e talvolta gustosissime intonazioni, e nella risacca sonora che è tra le cose più riuscite del pastiche, alternandovisi musiche classiche, valzer danubiani, e, scoccate nei momenti più giusti, famigerate canzonette del primo dopoguerra, quali Vipera e soprattutto Abat-jour, che combinandosi con le danze dell'eroina (una negra rapata a zero, Donyale Luna, squisita figura d'ebano sull'orlo di una magrezza da primato), determina irresistibili ribaltamenti di tono. Tra i filistei, che inorridirebbero, e eli ascritti all'Or- sdnnsLpstnctGM dine del Carmelo, disposti a tutto ammirare di questa féerie blasfema, v'è posto per una categoria di pubblico, che pur apprezzando le molte trovate che ci sono (e qualcuna anche d'ordine poetico), rimane perplesso davanti un metodo così rivoluzionario e al tempo stesso così livellato di fare del cinema. Al film, come lavoro di bravura, concorrono non poco il fotografo Masini e l'operatore Tessicini, sapienti e inesausti dispensatori di effetti speciali, incastonati in quel supremo « effetto speciale » che è in origine il film stesso. ' 1. p. « Decamerone nero » di Piero Vivarelli, con Beryl Cunningham, Dubrìll Diop, Serigne N'Diave Gonzales, Line Senghor, Josy McGregor, Fatou Diame. Produzione italiana a colori. Al cinema Gioiello. (s. r.) Propone subito il suo alibi questo Decamerone africano con la citazione iniziale di Senghor, uomo politico e poeta della négritude, che spiega la naturalezza e quindi l'innocenza della sensualità negra. Anche la fonte letteraria dovrebbe trarre il film dal coro dei decameroni casalinghi (nei quali, si suppone, la sensualità è peccaminosa). Le storie sono genuine, raccolte dall'etnologo Frobenius fra la novellistica orale di alcuni popoli africani: Vivarelli ha scelto quelle di stampo erotico, fidando nell'immunità del ricercatore colto, quasi un Pasolini migrato nel Continente Nero. Con questi avalli (Senghor, Frobenius, l'etnologia) s'è pensato di blandire il gusto anche dei più indocili alle disinvolture del cinema permissivo. In realtà, si sente, dietro le novelle e le ballate, qualche cadenza gnomica, qualche briciola di umor popolare (accentuata dalle riprese in esterni) ma tutto è stato adattato alla scaltra misura della confezione corrente, senza riscatto. Fra i racconti si segnala il primo («La regina bella»), perché vi campeggia l'unica diva dello spettacolo, la Cunningham, moglie del regista. Ha la parte di una regnante dispotica e ingenua, che cerca invano marito tra i valorosi suoi pari. Troppo dure sono le prove di selezione. Eiuscirà a portarla al talamo un industrioso artigiano, il quale ha capito che l'unica maniera di vincere la riottosa è quella di toccarla per le spicce nel punto debole. Un'altra favola racconta del fariseismo di alcuni potenti funzionari, sbeffeggiati da una prostituta, con modi e trovate (non sempre visivamente piacevoli) che ricordano la novellistica italiana. Nella storia di chiusura un giovanotto iniziato all'amore scopre le proprie doti di resistenza virile e le mette all'asta fra le donne bisognose dei villaggi. Nel dispiegarsi di questo apologo erotico cadono gli errori di gusto più rovinosi, perché è troppo sottile il confine che divide l'autentica facezia plebea dalla barzelletta scurrile, e per non sbandare ci vorrebbero equilibristi fini e bene addestrati.

Luoghi citati: Africa Frenzy, Londra, Venezia