Il giorno in cui Facchetti parlò di Giovanni Arpino

Il giorno in cui Facchetti parlò Si è finalmente aperto uno spiraglio tra i misteri del Club Italia Il giorno in cui Facchetti parlò Le confidenze dell'ex capitano della Nazionale - Franco Carraro: "Ma perché Giacinto non finge un malanno?" - Valcareggi assicurò un giorno che mai più Rivera e Mazzola avrebbero rivestito la maglia azzurra - Siamo alla vigilia del pensionamento forzoso per il Commissario tecnico? - Ancora una volta si dimostra come la selezione dei giocatori non dipenda da fattori tecnici, ma da molti discutibili equilibrismi «Sii buono, per favore», mi diceva ancora ieri pomeriggio, era già tardi, nella strada buia i rari passanti giravano la testa di scatto riconoscendo la taglia del gigante. Avevamo discusso due ore, ed inutilmente mi ero sforzato di persuaderlo: non rischi nulla, quello che dici non può assolutamente finire nei truci verbali di una Commissione Disciplinare, e poi ci sono certi autobus che non bisogna perdere, o altri vi salgono al posto tuo e rimani a piedi. Ma Giacinto Facchetti, onesto come una spada sguainata, non si arrendeva. E quel « sii buono, per favore» significava: lasciamo perdere, non facciamo polemiche. Perché nel vento amaro delle dispute il grande terzino-gol ci vive male, si strugge. «Mi prende qualcosa qui dentro», aggiungeva chiudendo il pugno sullo stomaco. E pensava a sua moglie, a suo padre, anch'essi lo vogliono tener lontano da discorsi troppo acidi. Giovedì scorso, giorno di partenza per il Lussemburgo, ci eravamo incontrati per un boccone insieme al ristorante. E Giacinto era ancora riuscito a dire, in allegria, al cameriere: «Ma si, cominciamo con un po' di prosciutto, però tosci no: mi farà sentire ancora tra quelli di Covercia?w...». E si chiacchierò di mille cose, del gioco all'italiana sclerotizzatosi in questi ultimi dieci anni, mentre tutti hanno fatto passi avanti, del ruolo di un «libero» più moderno, dei giovani dotati ma che, giunti ad un certo livello di specializzazione, si arrestano, non imparano più, non aumentano il proprio bagaglio tecnico, e cosi sanno fermare un avversario ma poi, liberi di giocare il pallone, non riescono a smistarlo. I discorsi di sempre, ma affilati, pregnanti. E già in quel giovedì avrei potuto scrivere le cose che tutti, invano, pretendevano da Facchetti. Non avendole ottenute, decine di articolisti hanno, da allora, riempito quarti di pagina invitando Giacinto ai suoi doveri, ribattezzandolo come il buono per antonomasia (e si sa cosa significhi questo, nel gergo italiano), magari inviandogli messaggi più o meno ammiccanti perché tacesse. Non più comandato dalla delusione o dall'amarezza, Facchetti non ha parlato mai. Anzi, ha sepolto delusione ed amarezza a furor di logica. Dall'alto delle sue 64 presenze in azzurro e delle 47 volte in cui fu capitano della Nazionale, Giacinto si sporgeva solo per dimostrarsi uomo e non un monumento, un atleta vivo e non un calciatore al quale troppi critici — con finta prudenza e toni mammistici — levavano di sotto le scarpe bullonate per infilargli fruste pantofole. Così, ieri sera, in quella strada di Milano, dopo tanti «sii bravo», lo lasciai partire con le mie cinque pagine dattiloscritte. Se le infilò in tasca, le avrà lette e rilette stanotte con la moglie e il padre. E io rinunciai all'articolo, in ballo da giovedì 5 settembre. Poi cominciai a rimuginare. stmmdoceiotoieedBtolepFddracintuq"Quello là" Perché ecco che rivedo, subito, Mazzola e Rivera all'aeroporto. L'uno, dovendo parlare dell'altro, lo definisce «quello là». Occupano angoli assai distanti, ciascuno circondato da una piccola corte di sorrisi e taccuini. Poi magari brindano insieme con cìiampagne rosé dopo la vittoria turistica sui dilettanti del Granducato, attenti a presentare ai cronisti due bicchieri colmi d'un identica porzione di liquido. Questo mentre i tifosi smaniano, pagano fior di soldi, si accoltellano con giudizi contrastanti nei bar, e mentre c'e gente che mangia pane e football conditi in salsa nervosa, come il nostro Bruno Bernardi, che sull'aereo dopo la partita in Lussemburgo, masticava: «Sarebbe nra di cantargliele chiare, a questi diletti, non se ne può più...». Ebbene, cantiamole. Anche se non mi diverto a scrivere questo articolo ted in secon da stesura, essendo rimasto l'originale a Cassano d'Adda. made in Facchetti). Per la prima volta, dopo anni di critica sportiva, scrivo di con traggenio, ma so anche che è indispensabile. Non verranno fuori accuse rodomontiche. ma solo spiragli, stati d'ani mo, battute che rivelano un clima. Mi spiace molto pes Giacinto Facchetti, ma lo spingo di forza sull'autobus. Forse passerà qualche giorno di bugarre, ma tra due anni ara contento che qualcuno abbia tirato il bavero, co- I j ! i j ' stringendolo a far da testi- mone. Lui domenica prossi- ma giocherà contro la Samp- doria di Heriberto, magari cercherà di andare in gol, e io invece devo scrivere subito. Alla lunga discussione di ieri era presente il giovane editore milanese Giorgio Borletti, che a un certo punto apostrofò Giacinto: «Ma lei ha. tra l'altro, il dovere di parlare. Proprio perché è Facchetti, non un pettegolo dei tarli. Lei e al di sopra delle mischie, ed i tifosi le saranno grati.,». E' quanto mi auguro. Anche se m'accorgo del ridicolo in cui ci stiamo mettendo tutti: qui si esita a parlare di qualche minuscolo mistero calcistico come se si trattas se del segreto di Forte Knox o d'un progetto aerospaziale di sbarco su Marte. Ma la vo- gliamo piantare, riportando cause ed effetti, protagonisti e consumatori di football al giusto livello? La Federcalcio dev'essere più misteriosa e protetta della Cia? Ma ci ren- diamo conto dell'omertà che governa l'impero pallonisti- co, che manovra l'«esercito in mutande», contaminando anche i più onesti? Ma ci decidiamo o no a ricordare che uomini d'età ormai veneranda, campioni mondiali negli Anni Trenta, ancora oggi tacciono ostinatamente su misfatti, pastette, imbrogli he ressero la loro vita di peda- te? Non è ora di spalancare qualche finestra? E allora: perché hanno escluso Facchetti dalla Nazionale? Certo in base a un avvicendamento di uomini, ma anche perché il «capita- no» non apparteneva ad una delle tante ghenghe che go vernano il Club Italia. Fac chetti mi ha raccontato d'u na frase detta da Franco Car raro ad alcuni amici, prima della trasferta balcanica. Co storo si stupivano che il terzino venisse lasciato a casa. E Carr r ^ rispose: «Ma quel salame di Facchetti. Perché, ogni tanto, non finge anche lui una bella distorsione, una bella ttndinite? Renderebbe meno clamorosa e chiacchie¬ rata una sua esclusione». Grazie. Carraio. Sappiamo che altri calciatori, più furbi, hanno fatto ricorso a questi metodi, ma si tratta di machiavellismi che non portano ad alcun risultato collettivo. Disse un'altra volta Carraro, in una località di montagna, ad amici che si imbarcavano in auto per raggiungere lo stadio di San Siro: «Ma come, andate ancora al calcio, voi? Ma non sapete cosa è diventato? Ma non sprecate soldi... ». Una svolta? - j - j à . o n e è Grazie di nuovo. Perché Franco Carraro (e lo appoggiammo alla vigilia della sua nomina a tutore di «Parin» Valcareggi) è magna pars del Club Italia, e se procede con tale cinismo non vediamo quali traguardi possa raggiungere. «Sii appassionato fino all'intelligenza», scrivevamo tempo fa, citando l'aforisma d'uno scrittore spagnolo, a proposito dei nostri dirigenti in pallone. Altrimenti si resta al livello di Cipro. Oggi Franco Carraro invita platealmente i cronisti a scrivere che lui non s'intende di calcio. Ma che strano! Eppure si piccava di masticarne, come presidente del Milan. A cosa prelude questo «non intendersene»? Anticipa una svolta? Un ritorno al prediletto sci nautico? Un diverso modo di intraprendere la scalata federale? O è una mossa nel gioco che dovrebbe portare «Parin» Valcareggi fuori del Club? Corre anche questa voce: che abili mani stiano già segando una gamba dell'annosa panchina su cui siede il nostro Commissario. A favore di Vicini o di un «terzo uomo»? Certo che, se uno «non se ne intende», potrà sempre dirsi estraneo, al momento opportuno. Grazie a Franco Carraro non andò in giugno a Sofia e Bucarest il mediano Bianchi, che Valcareggi avrebbe voluto. E' un atleta poderoso, ma oltre al difetto di appartenere a club di scarso peso politico, possiede anc'.ie un brutto carattere. In Italia, chi ha carattere, non può non averlo «brutto», secondo la comune accezione. Basta che dica pane al pane. E così stia a casa Bianchi, pur nel cuore del «Parin». Eccoci al nostro. Qui alcune confidenze di Giacinto stimolano le corde più patetiche. Sappiamo che Valcareggi vorrebbe comporre e far j giocare la Nazionale «ira vitro», con la completa assenza di giornalisti, critici, amici e nemici, magari del pubblico. | | Così lavorerebbe in pace, an- | j che se non si sa per quali 1 coppe e obbiettivi. Anche Valcareggi ha avuto i i suoi scatti. Una volta disse: «Senti. Giacinto, vedi quei due? Mazzola e Rivera? Mai più in Nazionale li chiamerò. Sono stufo di come riescono a montare ogni volta una polemica». Detto e fatto. Non solo ha dtata«gpccingvefazvrsbcsclesnxElnrdcCBsrvemnseccc dovuto riscoprire la «staffetta», ma li subisce insieme, targati col «sette» o con il «dieci» sulla schiena, e magari carichi di foglietti di appunti da leggere ai giornalisti come se si trattasse di dichiarazioni di Stato. E lui lì in silenzio, a subire, corrugando la fronte da quel brav'uomo che è, da quel duro eh- vorremmo fosse. E un'altra volta: «Oggi li farò recuperare sui loro terzini, quei due attaccanti. Devono tornare indietro, coprire il centrocampo, non starsene là impalati. Oggi li obbligherò a tornare. Dovessi chiederglielo in ginocchio». Qui stiamo alla giostra dei sentimenti, alla recita di un calcio tra le bugie, le trine, e le illusioni di un «.Arano scorso a Marienbad». Solo che non fu Marienbad, ma Bruxelles, esclusione dalla Coppa Europa, e quei due attaccanti li riconosce anche un neonato. Nessuna accusa straordinaria, vero? Solo la radiografia d'un ambiente, la febbre mi¬ surata da un termometro, che indica il grado di salute o di malattia racchiuso in un certo organismo. Per noi, queste affermazioni e frasette risultano assai probanti. Anche se preferiremmo saper qualcosa di più grosso (ce n'è, ce n'è), ad esempio del dottor Fino Fini, che scoprì Mazzola decalcificato prima del Messico, e che i cronisti, compresi gli amici suoi, chiamano ineffabilmente il «primario di Coverciano», e che fino ad oggi ha manovrato selezioni e squadre azzurre come se fosse — lui sì — un tecnico di football. Confidenze Giacinto Facchetti non si strugga. Non ha pronunciato uno storico «j'accuse», si è solo lasciato andare a confidenze legittime, che debbono appartenerci. Dei tanti cavalieri sportivi insigniti in questi ultimi tempi, l'unico veramente degno del titolo è proprio lui, isolato e fiero, impeccabile da dodici anni su tutti i campi del globo. Gli siamo e gli saremo grati. Se non si è spalancata una finesfra, si è aperto un foro sul Club Italia, e ne trapelano aromi poco gradevoli. Adesso ci sarà la chiamata alle armi per la Svizzera. Si ingigantirà il pericolo per la trasferta di Berna all'insegna | di «stiamo stretti e cerchiamo di non buscarle». Alibi anche questo. Gli svizzeri si batteranno gagliardamente, com'è nella tradizione, ma gli stessi critici dei vari Cantoni anticipano che un certo Boffi, il postino che fermò Riva, oggi è un ectoplasma calcistico, che la squadra manca di un portiere di buona levatura, che nomi gloriosi quale, ad esempio, Odermatt, etichettano corpi e muscoli carichi di ruggine. Anche in Svizzera potremo perdere solo per colpa del clan, delle sue divisioni, dei suoi intrighi, della sua acidità congenita. ' Amico Giacinto, era ora di parlare un po'. Anche pochissimo. Se il football deve ridursi alla partita domenicale e ai trionfalistici resoconti del lunedì mattina, allora tanto vale che tu sfili le scarpe e che io lasci le tribunestampa. Insieme potremo consolarci guardando ragazzini che trottano dietro a un pallone su campi periferici. Ma se il calcio nostrano deve essere — come è — industria importante, perno di tutto lo sport nazionale, allora è necessario discuterlo anche fuori dello stadio, nei suoi risvolti caratteriali e umorali. Proprio perché lo si ritiene una necessità, e non solo un gioco. Ora tu stai viaggiando per Genova, dove dpvi giocare, e io ho finito quest'articolo, che non poteva restare nel cassetto. Speriamo che non ti procuri alcun guaio. Tu hai teso una mano ai tuoi amici Azzurri, implicitamente sollecitandoli a migliorare. Ad essere, quantomeno, della tempra d'un Facchetti. E' un piccolo seme, ma può darsi che fruttifichi. Au revoir, man capitarne. Giovanni Arpino Giacinto Facchetti. ex capitano azzurro, un esempio di stile e di correttezza