Le amabili donne di Renoir di Marziano Bernardi

Le amabili donne di Renoir Fuori e dentro il gruppo degli Impressionisti Le amabili donne di Renoir Francois Daultc: « Auguste Renoir », Ed. Fratelli Fabbri, pag. 95, 200 ili. in nero e a colori, lire 1900. Già diec' anni fa Jean Renoir, nel libro dedicato al padre (.Renoir, Parigi, Hachette, 1962), ci aveva moi strato in filigrana il Renoir- uomo, come del resto avevano fatto il Vollard, il Rivière ed altri, e avrebbe fatto il Perruchot, sotto l'immagine del Renoir-pittore delineata dai critici. Questa filigrana è riproposta, con un giusto dosaggio della vita e dell'opera del grande artista, da Francois Daulte nell'ultimo volume ora uscito della collana Fabbri « Gli Impressionisti »; e poiché il Daulte è di Auguste Renoir un conoscitore perfetto, queste sue pagine si prestano ad alcune considerazioni. Anzitutto ridimensionano alquanto la leggenda della lunga incomprensione degli Impressionisti, della ottusa e tenace ostilità, del pubblico e della critica e dei collezio nisti contro la loro battaglia innovatrice fin dal primo salone del 1874. Eppure Renoir dei sei quadri inviati a quella mostra ne vendette tre, ed il capolavoro La logc, oggi al Courtauld Institute di Londra, gli fu comprato dal famoso piccolo mercante « le pere Martin » per 425 franchi; somma irrisoria, certo, ma vicina al mezzo milione del tempo nostro; e l'anno dopo raggranellava 2251 franchi con una vendita di venti tele all'Hotel Drouot. Insomma, non era la nera miseria di cui tanto s'è discorso, riservata piuttosto per lunghi anni a Monet, Pissarro e Sisley; e per di più stavano per entrare nella sua vita, con provvidenziali commissioni, Cocquet e l'editore Charpentier. Disegno e colore Questa minor diffidenza del pubblico verso Renoir, da confrontare con quella per gli altri Impressionisti (e giustamente sottolineata dal Daulte) è da ascrivere al fatto — forse non sempre messo nella dovuta luce — che Renoir fu senza dubbio uno dei protagonisti del movimento impressionista, ma soltanto fino a un certo punto. Come già notava Lionello Venturi, se non erriamo nel 1933 (e si veda il suo libro postumo, La via dell'Impressionismo, pubblicato da Einaudi nel 1970), la vibrazione e la discontinuità del tocco, la divisione dei toni per rag- giungere la sintesi ottica in una inedita luminosità dell'effetto pittorico — base dell'intuizione e del metodo impressionistici — è ben visibile nel capolavoro del 1876, Le Moulin de la Gaiette, subito capito ed esaltato dal Rivière come « un quadro che avrà per il futuro una grandissima importanza ». Ma la formazione di Renoir (pittore di ceramiche presso i Lévy, e di tendaggi presso il Gilbert) era essenzialmente disegnativa più che coloristica, e inoltre egli, a differenza degli amici Monet, Sisley, Pissarro, prediligeva il quadro di figura, tanto che le sue prime forti affermazioni, dopo il breve apprendistato alla scuola del Gleyre, e quasi malgrado i lunghi soggiorni nella foresta di Fontainebleau a dipingere « da paesista », furono dei ritratti, specie quelli della graziosa Lise Tréhot. Prediligeva cioè la figura nel senso indicato dal Venturi: « Amava troppo la grazia femminile perché la trasformazione fantastica dell'immagine non ne fosse condizionata... Una troppo frequente discontinuità di tocco avrebbe diminuito quella sintesi di grazia ch'egli ritraeva da un volto. Perciò il tocco vibra nelle vesti, negli oggetti, negli alberi, nei lampadari, ma si rallenta nei volti... per ottenere dalla lucecolore quella grazia che per secoli era stata realizzata dalla forma plastica ». Se non che così comportandosi Renoir usciva dalla poetica impressionistica per rientrare in quella della tradizione (la tradizione di Ingres?), accetta al vituperato borghese. Infatti la sua piena adesione all'Impressionismo non dura che un decennio. Tosto subentra una crisi che ben si può definire di « classicismo ». Dopo il viaggio in Italia, durante il quale aveva ammirato Raffaello, si renderà conto della frattura che s'era prodotta in lui. Confesserà più tardi a Vollard: « Io ero andato fino in fondo dell'Impressionistno e arrivavo a questa constatazione: non sapevo né dipingere né disegnare. In una parola ero in un vicolo cieco ». Quando si contemplino i grandi nudi dipinti a partire dal 1881, si comprende come egli ne sia uscito vittoriosamente, e con quali prodigi di forma-coloreluce; ed anche di composizione. Gli anni migliori Lionello Venturi afferma invece che le preoccupazioni di purezza formale cristalliz-1 zarono la sua forza creativa: « Proprio nel momento in cui raffina le sue forme, Renoir commette un grave errore di gusto », poi superato — secondo il critico insigne, sempre propenso a lodare la istintività creativa — con un ritorno all'entusiasmo lirico del plein-air impressionistico, circa il 1897, coincidente coi soggiorni sulla Costa Azzurra. Eppure il Renoir più grande e più « vero » non è quello (che il Venturi preferisce) dell'ultimo ventennio della vita chiusasi la notte sul 3 dicembre 1919, ma il Renoir che alla sensibilità naturalistica dell'Impressionismo seppe imprimere lo spirito del Classicismo ch'era, in fondo, il suo ideale artistico; il Renoir che come nessun altro moderno tradusse pittoricamente con purezza classica lo splendore del corpo femminile; il Renoir che diceva che se Dio non avesse fatto il petto della donna non sarebbe diventato pittore. Marziano Bernardi Renoir: « La danza in campagna » del 1890

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