Da Nordwig a Mennea

Da Nordwig a Mennea Due volti dello sport in Europa Da Nordwig a Mennea Germania Est ed Italia, dall'attività fìsica come elemento base della formazione dei giovani alla completa disorganizzazione - Il rovescio delle medaglie - Un "cavallo" per la battaglia del ministero della Gioventù (se vuole combatterla) Il 20 settembre p\el '68, durante una riunione del Consiglio di Stato, Walter Ulbricht dichiarava: « L'attività sportiva di milioni di cittadini è l'espressione viva della politica sociale e culturale della Germania Est». E la parola «sport» è citata più volte nella costituzione della Repubblica Democratica, a Lipsia l'Istituto superiore di educazione fisica è il fulcro di tutta l'attività sportiva del paese: vi nascono i tecnici, si specializzano ì medici, si studiano programmi che vanno dall'attività nelle scuole materne ai programmi di allenamento per i campioni da Olimpiade, studiati specialità per specialità ed atleta per atleta, dal vitto al lavoro quotidiano, dalle vitamine alle ore di son¬ no. Così si spiegano i trionfi dì Monaco, le venti vittorie di una nazione dì 18 milioni scarsi di abitanti, il terzo posto nei valori sportivi mondiali (dopo Urss ed Usa) di un paese che è il cinquantaquattresimo al mondo per superficie. Per una volta, le medaglie olimpiche servono a spiegare quello che accade alla base, la costante preoccupazione di un governo che (alla pari di quello sovietico) sa bene quanto valga la salute del popolo, dei giovani, per assicurare la piena efficenza dell'individuo nella vita sociale e di lavoro, a tutti i livelli. Lo sport obbligatorio come l'istruzione: c'è chi si ribella a questo concetto gettando in faccia le solite considerazioni sul «lavoro obbligatorio» dei paesi con un preciso indirizzo politico, ma se ci si sofferma a considerare «istruzione» e «cultura fisica» dei giovani come basi per la costruzione dell'uomo di domani ogni obiezione cade. Le centinaia di migliaia di italiani che arrivati ai trent'anni si abbrustoliscono nelle saune e faticano nei «ginnic club» sono il risultato di un lavoro fisico mal interpretato (o del tutto trascurato) negli anni giovanili, sono la testimonianza di errori ormai irrimediabili. Con qualche corsa durante la settimana, con un certo metodo, sullo slancio di un modo di vivere sportivo imparato a scuola assieme alla matematica ed alla geografia, non ci sarebbe bisogno di affannarsi sulla trentina alla ricerca di un aspetto fisico che non risponde solo a necessità estetiche, ma ad esigenze precise del corpo, macchina che deve es¬ sere tenuta in esercizio per funzionare bene. Che da una pratica sportiva diffusa, organizzata senza diventare un obbligo ma trasformata in abitudine, in gesto spontaneo, nascano i campioni, è un fatto naturale. Come e con quale intensità vengano poi allenati gli assi da Olimpiade lo sanno tutti, o quasi; si può giungere ad esasperazioni che fanno pensare, possono anche preoccupare. Ma dall'interesse per i Giochi il discorso che deve continuare, almeno in Italia dove in fatto di sport-salute siamo all'abc, è quello di una seria applicazione dell'educazione fisica negli anni giovanili, quello ormai annoso dello sport nella scuola. Può far sorridere, in un momento in cui non si sa neppure quando avranno inizio le lezioni '72-73, parlare di sport studentesco. Invece il problema va affrontato con gli altri, risolto al più presto assieme agli altri. Se il governo Andreotti è sensibile a questi argomenti, come sostiene Nebiolo, se il Ministero della gioventù vuole lasciare una traccia nel futuro, questo è un cavallo di battaglia cui merita balzare in sella. Certe «lezioni» non arrivano solo dall'Est dell'Europa, che l'anno prossimo (con l'Universiade di Mosca) sosterrà anche un test sulle capacità organizzative. Le università americane si contendono gli allievi usando come pezzo persuasivo nei confronti dei genitori le loro organizzazioni sportive. «Mandate i vostri ragazzi a Santa Clara, si alleneranno con la squadra olimpica di nuoto», ed ancora «iscrivete i vostri ragazzi alla North Carolina Central University, potranno correre sul tartan con Larry Black». E se la pubblicità vale, vuol dire che lo sport vale anche negli Stati Uniti; il crollo di Monaco ha dato solo la misura di come lo sport sia inteso Oltreoceano: pratica individuale, molti campioni, squadre di college efficientissime, organizzazione zero a livello nazionale. Da noi, esattamente il contrario. Il Coni, che recentemente in uno dei tanti «libri» ha rivendicato le sue competenze solo a livello di campioni, e le Federazioni sportive, sanno organizzare spedizioni imponenti con almeno un dirigente ogni due atleti, cuochi, massaggiatori, pasta, olio, vino (a proposito, che fine hanno fatto le «provviste» non utilizzate a Monaco?), » i , » , ma purtroppo lavorano su materiale ben scarso, perché la base non esiste. Se, con tutto il rispetto per la freccia pugliese, abbiamo vinto una medaglia di bronzo con l'atleta apparentemente meno dotato di tutta l'Olimpiade. — appunto Mennea —. si potrebbe ben trovare qualche ragazzo di valore se ci fossero le giuste sollecitazioni. Proprio il caso Mennea è esemplare sullo «sport all'italiana», un prato incolto nel quale spuntano ogni tanto fiori bellissimi — che si chiamano di volta in volta Beccali o Consolini, Dibiasi o Calligaris, Berruti o Cagnotto, Giusi Leone o Paola Pigni, nati per caso e coltivati dall'iniziativa privata. Mennea era uno dei tanti ragazzini che dai dieci ai sedici anni giocano a calcio nei prati, molte sudate pericolose (senza doccia e la minima attrezzatura) e molte scarpe rotte, con disperazione dei genitori. A 16 anni il terzo figlio del sarto di Barletta frequenta l'Istituto Tecnico Commerciale, e l'intuito consente all'insegnante di educazione fisica — il prof. Autorino — di vedere in quel corpo fragile ed ingobbito una «predisposizione» all'atletica. Che sia un intuito un po' vago, anche se benemerito, lo dimostra il fatto che la futura medaglia di bronzo dei 200 metri viene avviato alla... marcia. Poi si capisce che quelle gambette nervose sono più agili che forti, Pietro passa sotto le cure del prof. Moscaio (presso l'Avis Barletta) e comincia la strada che l'ha portato sul podio di Monaco. Il tutto fra mille battaglie, compresa quella di una decente sistemazione di vita dopo il conseguimento del diploma in ragioneria. Solo dopo gli «europei» di Helsinki '71 (sesto nei 200 metri, terzo con la staffetta) si comincia a pensare che il ragazzo di Barletta «merita una mano». Ed allora si scatena una battaglia, chi offre qualcosa pretende altro in cambio. Insomma, sballottato a destra ed a sinistra, per poco Mennea non si è bruciato verde. Le Olimpiadi per lui sono arrivate al momento giusto, non troppo presto. Con un anno in più c'era il rischio di rovinarlo, con tutte le attenzioni che siamo costretti a dedicare al poco che abbiamo in casa. Matthes e Nordwig, due degli assi della Germania Est, all'età in cui si «intuivano» le possibilità di Mennea vincevano già le Spartakiadi, le grandi competizioni giovanili cui partecipano non solo gli studenti, ma anche i ragazzi delle campagne. La loro strada era già chiara, grazie all'attività a livello dell'istruzione elementare, quando il velocista Mennea si allenava ancora per la marcia. Due mondi divisi da un abisso. Non lo colmeremo mai, e non è neppure necessario colmarlo. Il discorso olimpico deve conti| nuare soprattutto per fare dello sport un qualcosa di serio per i giovani, per la loro vita futura. Tanto meglio, poi, se sarà una vita da campioni. Bruno Perucca pdigande