In catene a Palermo i 24 imputati per l'orrendo eccidio della mafia

In catene a Palermo i 24 imputati per l'orrendo eccidio della mafia Si è iniziato il processo per la strage di viale Lazio In catene a Palermo i 24 imputati per l'orrendo eccidio della mafia Sei "killers" devono rispondere di quattro omicidi, ma si dicono innocenti - Secondo l'accusa, irruppe *o nell'azienda Moncada vestiti da poliziotti e fecero fuoco - Il movente della sparatoria non fu mai ac^. rtato - Due i principali testi: uno studente e un mafioso al "confino", che non confermò le dichiarazioni I Dal nostro inviato speciale) Palermo, 20 settembre. I «killers» della strage di viale Lazio tin tre minuti, quattro morti accertati ed uno probabile perché il suo cadavere non è stato mai trovato, due feriti) sono stati sistemati sull'ultimo gradino nel banco degli imputati: sono Gerlando Alberti, che dovrebbe essere il capo, Franco Sutera, Giuseppe Galeazzo, Gaetano Fidanzati, Salvatore Rizzuto, Salvatore Lo Presti. Hanno sempre sostenuto di essere innocenti e sono pronti, dicono, a confermarlo: ma il presidente della corte d'assise ha disposto che in aula rimangano tutti legati con una lunga catena di ferro. Per precauzione. Il provvedimento vale anche per gli altri 18 imputati di associazione per delinquere (dei quali, sei oggi non si sono presentati) mentre il venticinquesimo è libero perché gli viene contestata soltanto una semplice contravvenzione. Uno dei difensori ha protestato per :iuesto trattamento: ha parlato di «legge che lo vieta», di «inciviltà», di «rigore eccessivo», di «Costituzione». «Può darsi, avv. De Cataldo, può darsi — ha replicato con garbo il presidente, ma con l'aria di chi, comunque, non avrebbe mai modificato la propria decisione — le nor me del codice, vede, sono co me certi abiti perfetti che a me andrebbero benissimo, ma non a lei. Quanto mi chiede, non vi è dubbio che sarebbe scontato altrove: non qui dove il delitto non è un fenomeno patologico, ma fisiologico». Anche uno dei «killers» (o per lo meno uno di quelli che tali vengono definiti dall'accusa) ha protestato. Salvatore Lo Presti, 29 anni, il più giovane di tutti ha inveito contro i fotografi. Le accuse sono gravissime e per taluno potrebbero significare l'ergastolo: ma nessuno degli imputati sembra preoccuparsene. Tutti, infatti, sono | convinti di cavarsela perché Eagatapqdsbtclcali i tutti sostengono di avere un ì I alibi anche se sulla loro attenj dibilità l'accusa affaccia molj te riserve. Mentre, oggi, il giù; dice a latere, dottor Gallina, i stava illustrando (l'udienza è j tutta in questo racconto) i 1 fatti sui quali la corte dovrà , pronunciarsi, ognuno degli imputati ha mostrato con | ostentazione di pensare ad altro quasi che la storia non lo riguardasse: Alberti, sia pur a fatica per colpa delle mani le- j gate, ha badato quasi soltanto al parrucchino con cui cerca i di nascondere la calvizie: Su-1 tera ha scrutato dietro gli oc-1 chiali da sole l'au'.a affollata | di pubblico e di carabinieri come se fosse alla ricerca di qualcuno; Fidanzati ha continuato a masticare caramelle; gli altri più o meno hanno ' fatto qualcosa del genere; ! Rizzuto si è limitato a sorri-l J dere, interessato, soltanto per un attimo: quando il magiI strato, nel suo racconto, ha I dovuto ammettere che, per ! quanto la strage di viale LaI zio sia senz'altro un delitto i di mafia, « purtroppo non soj no state individuate le cause I che lo hanno originato ». Tutto, quella sera del 10 dicembre 1969. avvenne nello i spazio di pochissimi minuti. E stato Filippo Moncada, 28 anni, figlio di uno tra i maggiori costruttori di Palermo, a racontarlo. Davanti al cantiere del padre in viale Lazio arrivarono due «Giulia»: dalla prima scesero quattro o cinque uomini che indossavano divise da agenti di p.s.; dalla seconda saltarono a terra due borghesi. Erano armati di mitra; uno di loro, in divisa da capitano, ordinò: «Siamo della polizìa. Dove sono yh uffici?». Filippo Moncada fece appena in tempo ad indicare la strada che dall'interno qualcuno cominciò a sparare: era Michele Cavataio, 35 anni, «boss» mafioso della cosca di Pietro Torretta, tredici ornicii di e nessuna condanna perché tanto abile da non lasciare ì mai una prova Quattro raffiche Gli aggressori furono più lesti o più fortunati. Lo uccisero con quattro raffiche e con lui uccisero anche Francesco Tumminello, 41 anni, | anche lui notoriamente ma- j i letto del cantiere) Giovanni 1 Dome, 36 anni, un custode, 1 Tra gli aggrediti, solfante Ca | vataio riuscì ad avere il tem- fioso sia pure ad altro livello, Poi fecero fuori anche Salva- tare Bevilacqua, 38 anni, un dipendente dell'impresa Mon- cada e (sembra sul via-l o po di sparare e, sembra, a col- pire uno degli aggressori. E' bene dire sembra perché sulla circostanza le testimonianze sono discordi. Qualcuno sostiene di avere veduto i « killers» trasportare un cadavere, sistemarlo nel bagagliaio di una delle due «Giulia» e fuggire. Ma che la circostanza sia certa qualcuno lo dubita. Nessuno, infatti, ha mai trovato questo corpo: sepolto chissà dove, forse finito in mare, chiuso in un blocco di cemento. In viale Lazio rimasero quattro morti e due feriti, i fratelli Filippo e Angelo Moncada. oltre duecento bossoli di proiettili, un mitra a canna corta, quattro pistole, un fucile da caccia. Filippo si salvò nascondendosi sotto una scrivania, Angelo chiudendosi in uno stanzino. Per arrivare agli assassini si cercò di trovare la causale del delitto. L'elemento guida fu costituito da una riunione avvenuta in settembre nello studio di un avvocato a Palermo dove Michele Cavataio e Domenico Bove avevano avuto una forte discussione per lo sfruttamento di un'area edificabile. Due «boss» mafiosi in contrasto e tre mesi dopo la vendetta. Da principio venne avanzata l'ipotesi d'una lotta fra cosche mafiose. Il giudice istruttore ne sostiene, invece, un'altra: che quella sera del 10 dicembre 1969 il «commando» mafioso avesse il proposito di rapire Michele Cayataio e si adeguò poi alle circostanze replicando alla reazione altrui. Perché Cavataio si trovava negli uffici dell'impresa Moncada? Il titolare della so¬ stMpap j cietà, Girolamo ce finito an j che lui sul banco degli impu tati per associazione per de I linquere) non ha voluto spie1 garlo. Suo figlio, Filippo, ha detto che negli uffici del padre Cavataio («da gregario pericolosissimo aveva assunto un ruolo importante in seno all'organizzazione mafiosa », i condannato a tre anni soltan- to nel processo di Catanzaro si interessava di affari nel settore edilizio) la faceva da padrone: organizzava riunioni destinate a rimanere avvolte nel più assoluto riserbo. Ma gli assassini chi erano? La prima luce in tanto buio venne dalla dichiarazione di uno studente, Antonio Prestano, che quella sera del 10 dicembre stava passando in viale Lazio. Disse di avere veduto uno dei killers; era Francesco Sutera, un panettiere. Antonio Prestano si era appena lasciato andare a questa rivelazione che si sentì male: ritrattò tutto, non volle firmare il verbale. Tornò a confermare l'accusa soltanto a distanza di qualche settimana Gli altri? Gli altri cinque furono individuati ed arrestati undici mesi dopo quando a Castelfranco Veneto vennero fermati Gaetano Fidanzati, Salvatore Rizzuto, Giuseppe Galeazzo e Salvatore Lo Presti. I carabinieri scoprivano che viaggiavano con un'auto piena di armi e con documenti falsi. Il giorno dopo, Giuseppe Sirchia, un mafioso inviato al soggiorno obbligato a Castelfranco Veneto, si presentò spontaneamente per dire che quei quattro erano sicuramente venuti sin lì per ucciderlo ed aggiunse: «Sono quelli che hanno sparato a viale Lazio». Poi anche Sirchia ebbe paura e ritrattò tutto ovvero non volle, e non ha r a - ; mai più voluto, firmare il vere baie nel quale era stata sinte o 0 e- i a sea i liail no el j ti a a u tizzata questa sua accusa. Alibi falso Gerlando Alberti: l'ultimo dei sei. Il magistrato è arrivato a lui dopo l'arresto dei quattro a Castelfranco Veneto. Sapeva che erano amici di colui che, sommessamente, veniva indicato come uno dei «boss» mafiosi del momento: controllò che cosa Alberti avesse fatto la sera del 10 dicembre 1969; accertò che era a Palermo. Anche Alberti ha un alibi come gli altri: ha ammesso di essere stato il giorno della strage in Sicilia (ed invece doveva rimanere in Lombardia al soggiorno obbligato), ma, guarda caso, quella sera era a Caltanisset- ti ta e per di più era stato fer- l-1 mato dai carabinieri ad un i- - blocco stradale. Le indagini di | hanno accertato che non era » allatto vera ìa prima circo¬ffl stanza e neppure la seconda. Il processo è cominciato. Ma per il momento nessuno può dire se andrà avanti sino alla fine. La difesa, infatti, hapreannunciato una serie di ec- cezioni procedurali che hanno lo scopo di ottenere un rinvio: si tratta di un problema che la corte prenderà in esa me domani, Guido Guidi Palermo. Gl'imputati al processo per la strage di Viale Lazio. Gerlando Alberti è indicato dalla freccia (Tel. Ap)