La scienza nuova di Remo Cantoni

La scienza nuova Antropologia senza pregiudizi La scienza nuova Robert B. Taylor: « Elementi di antropologia culturale », a cura di Matilde Callari Galli, Ed. Il Mulino, pag. 292, lire 3000. Paul Mercier: « Storia dell'antropologia », a cura di Gualtiero Harrison, Ed. Il Mulino, pag. 248, lire 2500. La vera « scienza nuova » dei nostri tempi è forse l'antropologia. Essa si è ormai largamente diffusa anche nella nostra cultura, ma vi è penetrata con notevole ritardo, tra molti equivoci, disorganicamente, con alterne vicende e discordi fortune. Il Mulino aveva già pubblicato nel 1970 una monumentale Introduzione all'antropologia culturale degli americani Beals e Hoijcr e, nel 1971, Ve-, votazione del pensiero antropologico, un grosso e polemico manuale dell'americano Harris. Tutti e due questi libri — che io recensii su La Stampa — erano stati curati da Matilde Callari Galli. Con le opere di Taylor e di Mercier, Il Mulino dà ora vita a una collana di testi di antropologia e giustamente inizia questa serie con due volumi di lettura agevole e di carattere soprattutto informativo. Ancora una volta i nomi di Boas, Krober, Bencdict, Mead, LéviStrauss, Durkheim, Lévy-Bruhl, Linton, Lowie, Malinowski, Murdoek, Radclilfe-Brown, Sapir. Schmidt, White, Herskovits, Kluckhohn, ricorrono con frequenza e sono divenuti familiari agli studiosi di scienze sociali. Ed è signilìcativo che quasi tutti i nostri grandi editori pubblichino in questi ultimi anni testi di antropologia e che nelle nostre università siano in continuo aumento i giovani che seguono corsi a carattere antropologico. L'antropologo americano Taylor osserva che l'antropologia si differenzia dalle altre scienze che hanno come oggetto lo studio dell'uomo perché pone l'accento sul fatto che l'uomo va studiato sia come essere biologico che come essere culturale. L'antropologo cerca di evitare tutte le spiegazioni del comportamento umano che siano fornite in chiave esclusivamente biologica o in chiave esclusivamente culturale. I due gruppi di fattori interagiscono fra loro in un rapporto così intimo che c necessario usare tutti e due i tipi di spiegazione. L'antropologia culturale o sociale ha, pertanto, come tutte le scienze umane, una premessa biologica e un fondamento genetico. Ma questo ovvio presupposto, che riporta l'uomo nel grembo della natura, non vincola in senso deterministico il comportamento culturale o sociale dell'uomo, come asseriscono i razzisti più o meno palesi, di ogni specie c colore. Lo studio scientifico delle differenze culturali ci mostra, anzi, quanto siano variabili, nell'unimale-uomo, i costumi, i linguaggi, le tecnologie, le organizzazioni economiche e sociali, le religioni, le ideologie, le arti, i rituali. Né questo pluralismo viene annientato o sbiadito dalla ricerca di alcune strutture e funzioni unitarie che l'antropologo indaga come sfondo. Contro le distorsioni quotidiane dell'etnocentrismo, che costruisce i castelli di carta del proprio « imperialismo culturale », l'antropologia adopera il metodo del relativismo culturale che non è già una filosolia dissolvente o nichilistica che intende mettere sullo stesso piano tutti gli atteggiamenti e tutti i valori, bensì un monito a dilatare la ragione umana, un invito a superare le intolleranze e i dogmi assolutistici così abituali e funesti nei rapporti umani. Se il relativismo culturale fosse una tesi metafisica, sarebbe facile dimostrare il suo carattere contraddittorio in sede teoretica e la sua inconsistenza o estrema fragilità in campo morale. Se lo si interpreta, invece, come un memento da tener presente per sbloccare il fanatismo ideologico e le sue pretese assolutistiche e dogmatiche, ci si accorge che il relativismo culturale è, invece, uno strumento prezioso per una ricerca senza pregiudizi. Lo stesso Taylor lo riconosce: « Per chiunque ammetta che l'intolleranza e l'incomprensione fra culture siano pericolose e distruttive, il relativismo culturale è un concetto utile per combattere l'infondato etnocentrismo che tende a creare questi sentimenti ». La mentalità che contrappone drasticamente « noi » e gli « altri », i valori e i disvalori, il bene e il male, la verità e l'errore, idoleggiando la propria cultura e le proprie scelte come paradigmi da imitare o modelli da imporre, sacralizza il proprio «etnocentrismo» e squalifica le eteroculture con una specie di Diktat ideologico. I libri di Taylor e di Mercier sono ottimi strumenti per comprendere la tematica e la storia dell'antropologia. Sono testi di upgdtopbdvcsnmnpniloohlsdbfsnltetlvdmLsndlnunp avvio o d'inizio clic esercitano utilmente la loro funzione propedeutica. 11 lavoro antropologico infatti non è la descrizione di un mondo « esotico » o « pittoresco » al quale non- partecipiamo, e neppure è paragonabile a una vistosa « collezione di farfalle » o a una sfilata di variopinti « modelli culturali » che stimolano la nostra curiosità. Conoscendo gli « altri » non divaghiamo avventurosamente in un mondo diverso, conosciamo meglio « noi stessi » perché nessuno possiede in monopolio lo statuto dell'uomo o il codice della civiltà. L'antropologia culturale mette in crisi ogni forma di società chiusa e ogni ideologia settaria. La Callari Galli e Harrison hanno arricchito i testi di Taylor e di Mercier con vivaci presentazioni, numerose note sussidiarie e copiose indicazioni bibliografiche per ulteriori approfondimenti. Come in tutte le scienze non stupisce che anche nell'antropologia esistano scuole e tendenze tra loro divergenti. Le accomuna tuttavia un ethos che respinge ogni nozione troppo angusta dell'uomo, della ragione e della cultura. Non farò qui la rassegna dei vari indirizzi che mettono in discordia le varie scuole. Mi limiterò a qualche osservazione. La prima concerne l'evoluzionismo nel suo aspetto di darwinismo sociale. L'evoluzionismo darwiniano, validissima lesi biologica, non e altrettanto valido nei suoi tentativi di costruire una antropologia sociale a binari obbligati. Se si accetta il principio che la storia dell'uo¬ mo ha un itinerario costante e prefigurabilc che eleva l'animale-uomo dalla barbarie alla civiltà, dallo stadio selvaggio e primitivo allo stadio razionale e colto, si giustificano guerre e stermini c quella struggle for life ininterrotta che vede vittoriosi i gruppi meglio attrezzati per la lotta e detentori di un livello più evoluto di « civiltà ». La linea Dar\vin, Tylor, Morgan, Bachovcn, Engels culmina fatalmente in un nuovo e inconsapevole etnocentrismo. Tra le molle conquiste della antropologia ve ne sono almeno due clic la contrassegnano. La prima depreca l'uso degli aggettivi « barbaro », « selvaggio », « primitivo », « non civilizzato » e riconosce nelle culture « illetterate » non già mondi inferiori perché privi delle nostre tecnologie, bensì culture molto complesse, in antitesi a una visione eurocentrica o occidentalistica della cultura slessa. La seconda conquista è la dimostrazione della natura innovatrice e plastica dell'uomo. L'originalità dell'uomo è spesso imprevedibile e non lo costringe mai a scelte deterministiche. Dinanzi all'uomo, a ogni uomo, in ogni tempo c luogo, si aprono sempre più vie e più scelte perché il mondo delle possibilità umane non è mai vincolato a schemi vincolanti c fìssi. Se si toglie all'antropologia l'idea sléssa di pluralismo storico, se si ritorna all'ideologia del fattore decisivo, la storia policroma dell'uomo si riduce a un monocromato clic contraddice l'ethos della nuova scienza. Remo Cantoni Malinowski nella giungla, di Levine (Copyright N. Y. Rcvlcw of Hooks, Opera Mundi c per l'Italia La Stampai

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