Nel deserto dei pascoli di Nicola Caracciolo

Nel deserto dei pascoli INCHIESTA SULLE TERRE ALTE CHE SI SPOPOLANO Nel deserto dei pascoli A Castelmagno, sulle montagne cuneesi, vivevano 1200 persone; ne sono rimaste un centinaio: vecchi i più, e conducono un'esistenza grama e solitaria in un paese che sembra abbandonato - Gl'interventi pubblici, tutti sbagliati, non hanno difeso quel che si poteva salvare della pastorizia né aiutato il turismo - Con l'esodo scompare una civiltà contadina ricca di fantasia (Dal nostro inviato speciale) Castelmagno, luglio. Castelmagno è un comune dell'alta Val Grana nel Cuneese, che nel 1911 aveva più di mille e duecento abitanti. Oggi i residenti, dalle liste anagrafiche, risulterebbero essere 219; in realtà sono si e no un centinaio. La popolazione è andata via in ondate d'emigrazione successive, una volta dirette soprattutto verso l'estero. Oggi il principale polo d'attrazione si è ravvicinato: è il triangolo industriale, Torino in primo luogo, poi i centri industriali del Piemonte, e per finire la Lombardia e la Liguria. Milleduecento persone sui cinquemila ettari di pascolo d'alta montagna (tra i 1000 e i 2500 inetri) non potevano certo viverci. E difatti durante l'inverno, ricorda una vecchia dì oltre ottantanni. Maria Isoardi, le donne e i bambini scendevano nei paesi della pianura, da Pradleves fino a Cuneo per mendicare. Giravano di casa in casa ricevendo un pezzo di pane, delle castagne, nei casi più fortunati una cioto¬ la di latte o del formaggio. L'emigrazione era dunque necessaria; però negli ultimi dieci anni si è lasciato che quest'emigrazione si trasformasse in un esodo. La montagna viene abbandonata, diventa un rifugio per i vecchi che campano con la magra pensione degli agricoltori, poco più di ventimila lire al mese. I capifamiglia in età di lavorare sono pochissimi. Nelle dieci frazioni di Castelmagno in tutto, non ci sono più d'una dozzina di bambini. In abbandono Finisce un mondo per molti versi affascinante: a Castelmagno si parla ancora non un dialetto, ma una vera e propria lingua medioevale, il provenzale: e con essa si sta perdendo un patrimonio di canzoni popolari, di leggende, di tradizioni con il loro senso del magico e del miracoloso. Quando i vecchi che ancora si abbarbicano alle loro case e ai loro ricordi saran| no morti, è probabile che a Castelmagno non rimarra nessuno. Era necessario che le cose andassero in questa maniera? Probabilmente no. Nel territorio del comune non c'erano, è vero, risorse per più di mille abitanti; ma due o trecento avrebbero potuto vivere dignitosamente se si fosse fatto qualcosa per aiutarli, per razionalizzare la pastorizia e per il turismo, sostiene il sindaco De Matteis. I segni dell'abbandono sono evidenti. Quasi tutte le case sono vuote, con le finestre e le porte sprangate. Qualche volta si vedono le tracce d'un minimo di manutenzione: i proprietari tornano o sperano di tornare per le vacanze. Nella più parie dei casi, comunque, le costruzioni vengono abbandonate; i muri costruiti pietra su pietra con pochissima calcina si sgretolano, e prima o poi le travi si rompono e le ardesie del tetto vengono giù. Secondo il sindaco, basterebbe poco per evitare la fine del comune: bisognerebbe che l'Enel portasse la lu- ce elettrica (la zona è servita da una minuscola centrale costruita con una dinamo sotto un tetto di lamiera: funziona con l'acqua captata da una sorgente posta qualche centinaio di metri più in alto sidla montagna) e che il comune potesse spendere qualche milione per acquistare una ruspa. L'elettricità consentirebbe qualche attività artigiana e turistica; ma la ruspa ' è più. importante, servirebbe ad aprire delle strade transitabili verso i pascoli d'alta montagna che altrimenti restano abbandonati. Dato lo spopolamento, per salvare la pastorizia, che è poi l'unica risorsa della zona, occorrerebbe raccogliere il latte con un camioncino. Denaro buttato Comunque per ambedue queste richieste non c'è stato finora nulla da fare. Non è che lo Stato non spenda per Castelmagno; si comporta al contrario alternando all'avarizia la generosità premurosa e asfissiante d'una madre folle. Non dà al comune la somma necessaria a comprarsi la ruspa che è necessaria, ma stanzia una cifra quasi analoga — alcuni milioni — tra la meraviglia generale degli abitanti, per costruire gabinetti pubblici che nessuno ha chiesto e di cui nessuno sente il bisogno. Usare questi soldi per la ruspa? Nemmeno da pensarci: c'è il rischio di finire in galera per peculato. Un altro caso tipico è quello della scuola: il Provveditorato agli studi rifiuta dì pagare la maestra, dice che ci sono troppo pochi bambini per giustificare la spesa. Né d'altra parte, come si fa spesso in casi simili, si può portarli in autobus alla scuola del comune vicino: d'inverno la strada è troppo spesso interrotta. Soluzione? « Mandiamo i bambini di Castelmagno in collegio ». propone il Provveditorato. Tragedia: le famiglie non vogliono separarsi dai bambini, i bambini non vogliono andar via. Il comune decide allora d'assumere una maestra sussidiaria: viene pagata con una cifra irrisoria, duecentocinquantamila lire l'anno, più un incentivo dì tipo diverso. Castelmagno per legge è considerato una sede scomoda; accettando d'andarci si ottengono certi vantaggi di carriera. Questi vantaggi sono diventati assai dubbi: qualche anima buona al Provveditorato è andata a ripescare un regolamento del 1928, e per un cavillo la maestra rischia di perdere ogni agevolazione. I bambini di Castelmagno verranno dispersi l'anno prossimo nei miserabili collegi dell'assistenza pubblica in Italia? E' difficile stabilire il momento in cui l'indifferenza burocratica si trasforma in crudeltà. E' un discorso questo su cui vale la pena d'insistere: zone nella condizione di Castelmagno ce ne sono molte in Italia. Più o meno, tutti i paesi dell'arco alpino dove non arrivano i turisti sono nella stessa condizione. E in condizioni simili o peggiori troviamo un po' tutta l'agricoltura di montagna sugli Appennini dall'Emilia all'Aspromonte. Senza futuro La situazione delle alte Lunghe non è diversa. Dovunque lo stesso panorama: villaggi abbandonati o abitati prevalentemente da vecchi, terreni incolti che tornano selvaggi. E dovunque gli stessi problemi: l'isolamento, l'agricoltura di montagna che non rende più. la mancanza di prospettive per i giovani che volessero restare. Una sola costante non manca mai: l'inefficienza più che la scarsità degli interventi pubblici. C'è qualcosa d'allucinante nell'atmosfera delle frazioni di Castelmagno. Oltre ai vecchi sono rimasti spesso i più indifesi, quelli che per un motivo o per un altro non ce la fanno nelle città. Mi dice Silvio Ricca, unico medico per i nove comuni del circondario, che un certo numero di valligiani è tornato sui monti perché non riescono a reggere alla vita di fabbrica. Quando si è latto per tutta la vita il pastore — dice —, non è sempre possibile adattarsi ai rumori, al ritmo esatto delle lavorazioni in serie, ai rapporti umani spersonalizzati delle grandi città. Negli ultimi anni, il tono dei rapporti umani c indubbiamente peggiorato nei villaggi d'alta montagna: si tratta, come s'è detto, di comunità formate principalmente da vecchi, in apparenza totalmente emarginate, ma che in realtà vengono divise lo stesso dalla competitività della società moderna. Il figlio d'un-vecchio è disoccupato e ha girato mezza Europa alla ricerca d'un impiego fisso senza trovarlo; il figlio d'un altro è operaio, guadagna discretamente e torna per le vacanze a visitare i genitori; il figlio d'un terzo si è laureato e fa il dottore. Un minimo di gelosia e d'invidia fa si che i vecchi si isolino gli uni dagli altri, evitino di parlarsi. Molti finiscono col condurre esistenze da anacoreti. In una frazione sopra Argenterà, in Valle Stura, sono rimaste solamente tre donne, due sorelle tra i cinquanta e i sessant'anni e la madre ottantenne. Non vedono nessuno, non hanno contatti praticamente con nessuno. Evitano gli sconosciuti come se ne avessero paura. A Roccasparvero, un vecchio di settantanni era rimasto solo d'inverno, isolato dalla neve con la sua unica ricchezza, una vacca. La vacca partorì sce un vitello, qualcosa non va come dovrebbe, e il vecchio perde completamente la testa: con un'ascia apre il ventre della vacca, che naturalmente muore insieme al vitello. Lo ritrovano qualche giorno dopo inebetito e incapace di spiegare l'accaduto. zdCome vivono: Mario Chiaffredo sta solo con la moglie in una frazione di Castelmagno, sulla riva d'un torrente. Ambedue hanno una sessantina d'anni. Come vivono? Hanno la magra pensione, diciottomila lire al mese, coltivano un orto e vendono il latte di due o tre mucche. La loro casa è tenuta bene, l'elettricità gli viene dalla dinamo che l'acqua del torrente fa girare. Le case intorno stanno crollando tutte, non rimane nessuno nella frazione. Perché non se ne va via anche lui? I due non hanno alternative, sono senza figli, e quando non ce la faranno più ad andare avanti dovranno finire all'ospizio per i vecchi. Anche per loro il periodo duro è l'inverno, i lunghi mesi passati sotto la neve, senza vedere nessuno, avendo poco da lavorare. Una volta — spiega — era diver so. La vita era persino più povera, ma non si sentiva un eguale isolamento. Gli abitanti erano una trentina e a turno si riunivano (sempre d'inverno: d'estate c'era ! . i tempo solo per il lavoro) la sera ora nella stalla di uno, ora nella stalla d'un altro, per stare al caldo. Gli uomini curavano gli attrezzi da lavoro, rastrelli vanghe zappe, e le donne cucivano. Erano le «veglie» che si prolungavano fino a tardi nella notte che venivano impiegate principalmente a raccontare storie. Le memorie familiari avevano radici lunghe: la prima guerra mondiale, le campagne del Risorgimento, la ritirata di Russia con Napoleone. Si rievocavano i viaggi degli emigrati e i paesi straordinari che avevano visto, la Francia, gli Stati Uniti, l'Argentina. E poi venivano i racconti inquietanti, quelli che mettono paura: le storie delle «mosche», esseri soprannaturali per lo più malefici, o le infinite leggende della montagna. Questa civiltà contadina che sta morendo era ricca di fantasia e assai complessa. Nicola Caracciolo Castelmagno. La raccolta del latte sui pascoli dell'alta Val Grana durante la breve estate (Foto Moisio)

Persone citate: De Matteis, Maria Isoardi, Mario Chiaffredo, Silvio Ricca