Le ultime voci di Londra di Arrigo Levi

Le ultime voci di Londra DOPO IL VIAGGIO TRA I MAGGIORI ECONOMISTI Le ultime voci di Londra Di fronte al male degli Anni 70, ristagno più inflazione, Nixon ha istituito il controllo di prezzi e salari - E' un rimedio che trova più consensi teorici in Europa, meno negli Usa - L'americano Gary Fromm è scettico e afferma che si dovrebbe tornare alle leggi di mercato - Roy Harrod e Joan Robinson, autorevoli economisti del laborismo, approvano invece la "politica dei redditi", ma la vedono inquadrata in un nuovo "contratto sociale" Roma, luglio. Sia Paul Samuelson che Milton Friedman prevedono, per l'America degli Anni Settanta, un alternarsi di politiche economiche: misure fiscali e monetarie per stimolare la produzione, rallentamenti artificiali mediante interventi deflazionistici, ricorso ripetuto al controllo diretto dei salari e dei prezzi. Quest'ultimo è il fatto nuovo, che non riguarda soltanto l'America, ma potrebbe segnare una svolta nell'economia « neocapitalista » di questo decennio, rispetto al precedente: Nixon, con le misure dell'agosto 1971, avrebbe soltanto indicato la strada. L'ipotesi che fosse'possibile ottenere uno sviluppo economico continuo, rapido e senza incidenti con l'uso esclusivo di politiche monetarie e fiscali, tenendo magari conto delle teorie di Friedman sul volume della circolazione monetaria oltre che delle pratiche di governo economico di derivazione keynesiana, era stata alla base della Nuova economia, adottata, sia pure con varianti nazionali, in quasi tutti i Paesi dell'Occidente negli Anni Sessanta. Nel corso di questo decennio divenne però evidente che la natura stessa di quest'economia stava mutando, insieme con la società di cui essa era l'espressione, e che pertanto certe politiche prima efficaci non lo erano più: ad esse l'organismo economico, anziché reagire positivamente, era divenuto allergico. In particolare, riusciva sempre più difficile arrestare le spinte inflazionistiche, e i tentativi di frenarle provocavano soltanto delle crisi artificiali e la stagflation. Sempre più spesso è stata proposta, quale rimedio a questi mali nuovi, la « politica dei redditi ». Come vedremo, sotto questa etichetta si cela qualcosa di molto più vasto e importante d'un semplice controllo o freno degli aumenti salariali: questa è un'interpretazione semplicistica ed inesatta, che ha solo contribuito a rendere impopolare il concetto. I due modelli Neppure aiuta a capire che cosa possa significare una politica dei redditi in un'economia mista di mercato « neocapitalista », e in società libere come quelle occidentali, l'interpretazione repressiva che ne viene data nelle società autoritarie di tipo sovietico. Ricordo quanto mi diceva qualche mese fa, durante una conversazione nella sua casa di Chelsea, Andrew Shonfield, autore di Modem Capitalism (un'opera di quasi dieci anni fa): « In quel libro sostenevo già una mia tesi sulla politica dei redditi. Era per me chiara l'idea che non si poteva ottenere facilmente la programmazione degli aumenti salariali. Una tale politica — sostenevo — era una nuova forma di contratto sociale che coinvolgeva tutto, perfino problemi della proprietà, né si poteva farla senza cambiare contemporaneamente molte altre cose. Essa alla fine sarebbe risultata un fatto rivoluzionario per il capitalismo moderno ». Concludeva Shonfield: « Ripensando a quel mio libro, mi rendo conto che davo per scontato il consenso popolare al neocapitalismo, per il suo successo produttivo. Oggi, se riscrivessi quel volume, dovrei riconsiderare il problema: forse il consenso è meno scontato di quanto pensassi ». Il consenso imperfetto è infatti una delle ragioni per cui l'economia neocapitalista s'è rivelata un meccanismo meno facilmente regolabile di quanto molti sperassero. Ne derivano spinte di protesta che rendono tumultuosa l'evoluzione salariale. Ma dietro i fenomeni più nuovi del « neocapitali¬ smo » d'oggi c'è tutta una serie di fatti nuovi, sociali, politici, istituzionali. Essi non appaiono modificabili anche perché sono, sotto molti aspetti, positivi. Spese sociali Ne dà una sintesi assai completa Gary Fromm, della « Brookings Institution », nella lettera che mi scrive, da Washington per spiegare le cause prime, originali, della stagflation, ossia di quel miscuglio di ristagno e inflazione che è il male peggiore dell'economia contemporanea. Mi scrive Fromm: « La stagflation è stata provocata dall'erosione della competitività sui mercati produttivi e sul mercato della manodopera; dall'emulazione e dal principio d'equiparazione nel fissare salari e prezzi; dall'attesa, infine, che il governo intervenga comunque per impedire qualsiasi cospicua riduzione della produzione, dell'occupazione e del reddito ». In altri termini: all'origine della stagflation (cioè del persistere di un'inflazione di salari e prezzi anche in periodi di ristagno produttivo) stanno nuovi fatto¬ ri di rigidità nel meccanismo di mercato, che allontanano sempre più l'odierna « economia mista » neocapitalista dal modello teorico del mercato perfetto. Spiega Fromm: « I sussidi per la disoccupazione (tipo « Cassa integrazione »), gl'interventi assistenziali e altri trasferimenti di reddito tendono tutti a ridurre la sensibilità ciclica dei salari e dei prezzi. Di conseguenza, quando la domanda di prodotti e di manodopera cade, i lavoratori non tendono affatto a ridurre le loro richieste salariali, siano essi occupati o disoccupati ». Per la rigidità dei salari, vuol dire Fromm, anche nelle fasi calanti del ciclo non si ricostituiscono i margini di profitto delle imprese, e non si creano quindi le premesse per un rilancio. L'economista americano conclude, in chiave di liberismo puro: « La riduzione o l'eliminazione della stagflation richiederebbe il capovolgimento del fenomeno della concentrazione del potere, sia nel campo sindacale che in quello aziendale; ed anche migliori previsioni e politiche fiscali e monetarie da parte dei governi, e la crea- zione di mercati della manodopera e di mercati produt-' tivi più efficienti ed efficaci. Fintantoché non avremo tutto questo, saremo sopraffatti dagl'interventi di ogni tipo, dalla "politica dei redditi ", dai controlli diretti o semi-diretti sui salari, sui prezzi e sugli altri costi di produzione ». Nella parte diagnostica, quest'anàlisi 'dì Froniiti 'troverebbe .oggi i consenzjente, credo, la stragrande maggioranza degli economisti; sui rimedi, sorgerebbero invece seri dissensi. A me sembra poco realistico pensare di poter capovolgere la tendenza alla « concentrazione dei potere» che riguarda le imprese da una parte, i sindacati dall'altra. E mi sembra non solo poco realistico, ma anche sbagliato per ragioni sociali e umane, illudersi di poter annullare le conquiste degli ultimi decenni in materia di sicurezza sociale. Il punto di partenza per qualsiasi discorso sui rimedi dev'essere la realtà attuale, che ha difetti, ma anche pregi: infatti il mercato puro, totalmente elastico, significherebbe anche cicli acuti, esasperati, con violente cadute del reddito e dell'occupazione e con la fine della sicurezza sociale. Nessuno può volere queste cose. Partiamo dunque dalla constatazione che l'economia mista « neocapitalista», quale oggi esiste, ha acquisito forti elementi insopprimibili di rigidità. Ci si chiede: è possibile impedire che questi elementi, come il potere dei sindacati, le istituzioni per la sicurezza sociale e la concentrazione oligopolistica delle imprese, la rendano ingovernabile e alla fine improduttiva? Un'efficace «politica dei redditi », con tutto ciò che essa può comportare, è la soluzione valida del problema? "Non è scienza" Cito, a questo punto, due risposte d'illustri economisti inglesi. Dall'Università di Claremont, in California, dove trascorre un periodo d'insegnamento, mi ha scritto Sir Roy Harrod, già amico, collaboratore e poi biografo di Keynes. A 72 anni, Harrod conserva quella sobria e asdutta lucidità di ragionamento che è sempre stata la sua forza di economista. Cito, dalla sua lettera, due frasi quasi lapidarie: «Direi che lo stato attuale dell'economia occidentale sia abbastanza buono: la necessità d'una politica dei prezzi e dei redditi è stata ormai riconosciuta, sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna... Non esiste una " scienza " dell'economia. La politica economica continuerà il suo zoppicante cammino: ma suppongo che i suoi sbagli non saranno tanto gravi da arrestare le forze naturali dell'espansione ». Harrod, che è stato considerato un tempo il capo della « destra keynesiana », afferma dunque: politica dei prezzi e dei redditi. Ed ecco la voce principale della sinistra keynesiana: è quella battagliera e vigorosa di Joan Robinson, e in sostanza dice la stessa cosa, come vedremo. Della Robinson non citerò gli anni: mi limito a ricordare che ' le sue prime analisi teoriche, da cui Keynes fu stimolato a formulare i suoi grandi sistemi, risalgono all'inizio degli Anni Trenta. Ella mi scrive da Cambridge, Inghilterra: «Era un ovvio corollario della rivoluzione keynesiana che, se un Paese industriale fosse riuscito a mantenere il pieno impiego, o quasi, per un periodo d'alcuni anni, senza che peraltro cambiassero le istituzioni e le abitudini della contrattazione salariale, sarebbe andato soggetto a un'inflazione continua. L'idea che " appena un pochino " di disoccupazione bastasse per tenere salari e prezzi sotto controllo, non è mai stata plausibile, ormai è provato ch'essa era falsa ». Una stoccata Continua Joan Robinson: « Per un po' di tempo gli economisti, specialmente negli Stati Uniti, hanno cercato rifugio da questa scomoda situazione in un rilancio della teoria quantitativa della moneta. Ma questa teoria era del tutto insensata, e una politica economica' basata su ciò che si riteneva ch'essa significasse poteva portare soltanto a delusioni. Come infatti è avvenuto ». Dopo questa stoccata a Milton Friedman, Joan Robinson conclude: « Oggi è riconosciuto dai più. che non si possono avere insieme una prosperità continua e prezzi stabili: a meno che l'intero sistema delle relazioni Industriali non sia radicalmente cambiato. Ma tale cambiamento coinvolgerebbe profondissime questioni politiche, che nessun Paese capitalista è ancora disposto ad affrontare ». Cercheremo d'analizzare che cosa possano essere queste «profondissime questioni politiche » (« un nuovo contratto sociale », dice Andrew Shonfield), riferendo le opinioni d'altri grandi economisti europei. Arrigo Levi (Il precedente articolo dell'inchiesta è apparso il 14 luglio). Londra. Due autorevoli economisti inglesi: sir Roy Harrod e la signora Joan Robinson (Foto Vitapress)