La selva oscura

La selva oscura Un assai felice esordio narrativo La selva oscura Gusto figurativo, echi danteschi e trasfigurazione onirica Luigi Bongiorno: « La selva oscura », con pref. di Giansiro Ferrata, Ed. Mondadori, pagine 208, lire 2200. La selva oscura è il primo romanzo di un nuovo scrittore, Luigi Bongiorno, trentaquattrenne, friulano (di Pordenone), ma vissuto per qualche tempo all'estero, ed ora residente a Milano, dove svolge un'attività editoriale. Primo libro, ma frutto di Una ricca esperienza letteraria; e non solo letteraria, essendo spiccato in lui un gusto figurativo, che tende a rendere in atto, a visualizzare momenti o motivi della vicenda, tratti e sentimenti dei protagonisti, e a ricercare, specie negli esterni, l'accordo tonale delle luci e dei colori. I poli fra cui quell'esperienza oscilla sono, all'incirca, l'espressionismo e il surrealismo, per quell'esasperarsi, fino alla deformazione, degli spunti e delle situazioni realistiche, di una realtà a volte la più quotidiana; ovvero per quel loro levitare in prospettive estrose, fanta¬ stiche, metafisiche, nelle quali quel tanto di simbolico e insieme di sarcastico che è nel primo diventa humour, ironia, allusività o arcanismo. E s'intende come una tale oscillazione induca il giovane scrittore ad allontanarsi dalla linea del romanzo tradizionale: non però verso l'antiromanzo, o l'avanguardia, essendo in lui sicuro — come ebbe a notare il compianto Niccolò Gallo, suo primo lettore per conto della Mondadori — il senso del racconto, e, si può aggiungere, dell'intreccio, dell'« imbroglio ». Al centro della Selva oscura c'è, infatti, un terzetto che può sembrare tipico del repertorio romanzesco realista o neorealista: una giovane donna, Giuditta, desiderata da due uomini, uno dei quali, Giorgio, un intellettuale o sedicente tale « carico di problemi reali e immaginari, vanitoso come una farfalla», è suo fratello, e l'altro, Roberto o Rob, che è il personaggio narrante, anche lui strambo ma conseguente nel suo atteggiamento anticonformista, e « gonfio di collera » contro la1 famiglia, la collettività, la società e lo stesso Giorgio, da cui si sente « plagiato ». Da un lato, dunque, un fratello incestuoso almeno nel pensiero, che ha come « donna dello schermo » una ragazza sua vicina di villa (l'ambiente è quello della ricca e media borghesia di una innominata città, che ha però qualcosa del grosso borgo, circondata come è dalla campagna, e con i suoi corsi e i suoi portici rumorosi di brigate di amici, ma anche di giovani contestatori e di cariche della polizia). Dall'altro, Roberto, che si eccita alla descrizione che l'amico gli fa della sorella, e soprattutto della intimità, almeno visiva, di cui gode frequentando la sua casa. Ma un giorno la ragazza rimane incinta, e il fratello ricorre all'amico perché la accompagni dall'ostetrico, per « liberarla » dell'intruso: la cui paternità, peraltro, può essere variamente ipotizzata, anche per la presenza clandestina di qualche altro uomo. Un intrigo in piena regola, che però nel contesto assume tutt'altro tono e funzione, pur narrato come è in un crescendo di scene a due e a tre, in quanto queste non solo sono precedute o intercalate da commenti, riflessioni, confessioni, evocazioni del narrante, ma di continuo ribaltate dal piano realistico, anche più audace, su quelli dell'immaginazione, dell'allucinazione o della trasfigurazione onirica. Con un moto che si allarga via via in cerchi concentrici, fino ad investire, la vita dell'intera città, la sorte dell'uomo in generale, che sempre più si smarrisce nella « selva oscura », per finire — attraverso modi più o meno esoterici — in una sorta di allegoria della morte. Un racconto dalla scrittura limpida pur nell'ambiguità o enigmaticità del significato ultimo, razionalmente condotto malgrado i continui sconfinamenti nell'irrazionale, stringato pur con le sue morbidezze sensuali. Un racconto nel quale i sottili richiami alla Vita nuova paiono giustificati non certo da nostalgie stilnovistiche, bensì da quel suo procedere per apparizioni e dissolvenze. Ma nel quale tuttavia le parti più piene, le cose più vive sono le più vicine ad una realtà come veduta in sogno, o carica di suggestioni e di fermenti. Alludo alla figura di Giuditta, dalla particolare continuità ed evidenza di disegno; a certe visioni d'insieme, di folle e caos cittadini; a certi paesaggi, quasi sempre molto belli e niente affatto esornativi, nonostante l'accuratezza e talora la preziosità dei dettagli, in quanto trasposizioni di stati d'animo. In essi è più di un ricordo, oltre che della pittura veneta, di un insigne scrittore di quella terra, Comisso: ricordo intimamente rielaborato, ma che è come una spia della soggettività cosi schermata del nuovo narratore. Esordio insomma assai felice, che tuttavia se in qualcosa può lasciare perplessi, è nella direzione del più non del meno. Mi riferisco a quella sicurezza di cui già parlava Gallo: che non finisca col ridondare in bravura, e il simbolismo, l'allegorismo col cadere nell'astrattezza o nel compiacimento intellettualistico. Qui ce n'è più di un indizio, specialmente nell'ultima parte, forse troppo ambiziosa, e Bongiorno farà bene a tenerne conto. Arnaldo Bocelli

Persone citate: Arnaldo Bocelli, Bongiorno, Comisso, Gallo, Giansiro Ferrata, Luigi Bongiorno, Niccolò Gallo

Luoghi citati: Milano, Pordenone