La prigionia di Giannone di Carlo Carena

La prigionia di Giannone La prigionia di Giannone L'illuminista che morì a Torino Pietro Giannone: « Opere », Ediz. Ricciardi, pagine XXXVIII, 1240; lire 12.000. Il 27 novembre del 1735, una domenica, Pietro Giannone giungeva a Torino da Milano, nei suoi pellegrinaggi di perseguitato politico: fuggito da Napoli a Vienna dopo la pubblicazione dell'Istoria, civile del regno di Napoli, espulso anche da Vienna e poi da Venezia, era iti viaggio verso Ginevra, ove. l'uscita dagli Stati cattolici gli prometteva una vita tranquilla. A Torino rimase due giorni, all'albergo della Dogana Vecchia, cercando un calesse per passar le Alpi e visitando la città « senza sospetto o timor alcuno di sinistro successo ». In realtà le bellissime descrizioni di quel viaggio attraverso il Piemonte e fino al lago Lemano, nella stessa autobiografia del Giannone che il grosso volume di Ricciardi riporta per intero, si concludono col racconto del suo arresto proditorio a Chambéry per opera degli agenti di Carlo Emanuele III e dei primi anni di prigionia. Furono dodici anni di prostrazione inenerrabìle, prima nel castello di Miolans, in Savoia, ove non entravano tutto Vanno dalle finestre che. i geli e i fragori delle valanghe; poi a Torino nelle carceri di Porta Po. a Ceva e ancora a Torino, nella cittadella, dove verrà la morte, nel 174S. Partendo da « Champéri » per Miolans subito dopo l'arresto, e in previsione « della noia e del tedio » che l'aspettavano in un tetro futuro, il Giannone si era comprato fortunosamente da un libraio una copia delle Storie di Tito Livio. L'edizione non era delle più corrette, ma gli fu di gran sollievo continuare una lettura che conduceva quotidianamente da anni, da quando a Napoli era entrato in rapporti d'amicizia col reggente Gennaro d'Andrea e ne aveva contralto l'entusiasmo per lo storico romano. « Tra li alpestri e rigidi monti delI la Savoia — annota il Gianj none nella Vita — ci convenne passar miseramente più i mesi, nei quali, per non mar! cir nell'ozio, avendo j)resso ' di me le deche di Livio, que| stc ci servirono di campaI gni'a c per unico conforto e i ristoro, sicché te ore del gior-1 1 no ci riuscissero meno noio se ». Da queste «letture perpe- i tile» nacque anche, in coree-\re, un frutto interessante. Tra | i primi di marzo e la metà di maggio del 1739, nel costeilo di Ceva il Giannone stende alcuni Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio, di cui in questo stesso grosso volume ci vengono offerti degli estratti antologici. Il precedente immediato a cui corre il nostro pensiero sono ovviamente, ripresi per sino nel titolo giannoniano, i Discorsi sopra la prima deca del Machiavelli. Ma mentre per lo storico rinascimentale Livio è un pretesto, un rifornimento di spunti e di prove per sviscerare il metodo con cui si costruisce e si conserva uno Stato, il filosofo settecentesco centra la sua analisi sul problema religioso, quello che gli stava più a cuore, e sulla problematica degli atteggiamenti religiosi dell'uomo. Il suo ispiratore è piuttosto il Toland, l'inglese autore de/Z'Adeisidaemon: già Livio, per il Toland, era un «uomo senza superstizioni », che aveva condotto una costante polemica contro i culti pagani. Giannone non potrà non mitigare talune sue convinzioni né esimersi dall'introdurre apprezzamenti del cristianesimo davvero stonati nel contesto. Ma nelle parti più evidentemente sincere dell'opera risplende una grande considerazione verso lo storico romano per la capacità che ha di cogliere e d'illustrare, in un quadro di « sentimenti poco religiosi », le tesi più care all'autore: somma fra tutte, quella della religione quale strumento di governo, un'arte in cui i Romani avrebbero accortamente primeggiato sin dall'età di Romolo, gran sacrificatore agli dèi secondo la convenienza dei tempi, e che non sarebbe stata l'ultima ragione della loro inarrivabile grandezza politica e militare. Priva di credenze metafisiche, di speranze come di paure, la loro religiosità, pur fatta di prodigi, di ammonizioni, di arcane presenze divine, era « ristretta ed indirizzata al riposo di questa presente vita ed alle felicità terrene e mondane, per la conservazione ed ingrandimento della loro repubblica, per la prolazione dell'impero e suoi trionfi ». In vita immolavano vittime agli dèi per utilità, dopo morti non si attendevano altro che la fama presso i posteri. E ciò bastò, da stoici e più da epicurei, alle loro virtù. Ancora per Vico. Livio era « l'interprete della comune per- 1 suasione religiosa » del popò- 1 lo per il quale scriveva; per Giannone, con quanto sforzo i ma anche arguzia interpreta\tiva s* Puo immaginare, di¬ | venta un deista avanti lettera, un « non meno grave e serio filosofo che avveduto e accorto politico ». Il tramonto dello studio di Tacito, già maestro della ragion di Stato e dei principi seicenteschi, coincide dunque con una ripresa della lettura attualizzata di Tito Livio (vien troppo facile di ricordare per quegli stessi anni anche le Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani di Montesquieu). Le meditazioni carcerarie del Giannone lo inseriscono nelle polemiche, contemporanee sulla religione naturale e rivela- ta e sull'ateismo, con forti j coloriture, e implicazioni pa¬ e , itiche Che nella sua polemica, qui come negli altri scritti coevi. Pietro Giannone non dimostri una straordinaria originalità di idee, non è così importante, osserva bene il Bertelli nella prefazione, quanto la dimostrazione, in i I lui, della profonda crisi dele ' o : l ! i ¬ la religiosità europea dopo Spinoza. Seguirlo in queste sue letture — ci sono, nei suoi esposti e suppliche alle autorità, persino richieste di libri come la Storia naturale di Plinio utilizzata per la medesima analisi di costumi e o | idee degli antichi — è segui- j re di puri passo « la crisi dei- ! l'uomo di cultura settecentea i sco, giunto alle soglie del deirismo. Attraverso le sue pugiaine è tutto il inondo del li¬n i bertinage érudit che si apre dinanzi ». | Carlo Carena