Seneca narcisista

Seneca narcisista Seneca narcisista Una complessa figura di contestatore nella Roma neroniana Seneca: « Operette morali ». a cura di R. Del Re, Ed. Zanichelli, 3 voli, lire 9000. Il nome di Seneca suscita in noi l'immagine d'un bassorilievo marmoreo, d'una grisaille neo-classica: bianchi i capelli e la toga, pallido il volto impassibile. Una figura severa atteggiata nel gesto di tagliarsi le vene, cui fa riscontro quella opulenta e scomposta di' Nerone, avvolto nel manto di porpora, cosparsi i capelli di polvere d'oro. Sono le più popolari raffigurazioni tipologiche della fermezza repubblicana, l'una, del dispotismo orientale, l'altra; così furono trasmesse da fonti anti-imperiali, ispirate a tendenziosità non immune da retorica; cosi eternate nell'arte figurativa, nel dramma, nella storia. Quelle fonti suggerirono a Tacito un Tiberio sinistro, un Claudio grottesco, un Nerone devastato dai vizi e dalla ferocia; egli erra negli Inferi, ombra implacata, per Rutilio Namaziano, mentre « Seneca morale » conversa pacatamente tra gli spiriti magni nel Limbo dantesco. Tale era il prestigio della tradizione repubblicana: la causa dei vincitori piacque agli dèi, quella dei vinti a Catone. Piacque anche ai posteri. Il contrasto tra le due figure, che è quello tra la tradizione municipale e l'universalismo teocratico, tra l'individualismo liberale e il collettivismo livellatore, si perpetua nei secoli, anche se 1 basato su un equivoco: la stoI ria di Roma fu ricostruita su i giudizi dell'opposizione tanto quanto sulla versione ufficiale. Prevalgono, volta a volta, gli archi di trionfo o la daga dei tirannicidi. La verifica, rigorosa o dissacratrice, della critica ha demitizzato molti ritratti agiografici, tra i quali quello di Seneca. Accenna a questi giù- rati, di cui è attento e dotto curatore: non si discosta dal- l'alta valutazione che C. Mar- I tuale » ai suoi scritti, pur de- chesi dette"dT'seneca"e ricó i nosce un « ait0 valore spiri dtzi negativi R. Del Re nella introduzione a questa nuova edizione delle Operette mo- plorando che siano « ristretti nei limiti del paganesimo e mancanti della luce cristiana ». Ribadisce tale giudizio, ispirato a un criterio subiettivo e, come tale, antistorico, quando scorge barlumi di cristianesimo nell'umanitarismo, nella Provvidenza di Seneca; ma conclude: « Ciò non toglie che da S. Paolo lo separi un abisso ». Seneca è una figura complessa e incoerente: nella sua formazione si riscontrano componenti molteplici, dato che tra i suoi maestri, oltre a due stoici, figurano un cinico e un neopitagorico. La pluralità delle dottrine si riflette nella vivacità della sua prosa e nella duttilità del suo pensiero, alcuni aspetti del quale sono comuni a tutte le filosofie antiche: vincere le passioni, rifuggire dal lusso e dai piaceri, tenere in dispregio persino la gloria, affrontare serenamente la morte sono dettami convenzionali, ancorché ardui. Seneca non applicò alla perfezione che l'ultimo. Ricchissimo, esercitò la professione forense; fu esiliato in Corsica, apparentemente per un'avventura galante; per uscirne, adulò Messalina; satireggiò Claudio, dopo la sua morte; fu chiamato a corte | da Agrippina e testimone, per quel che risulta, imperturbato dei trascorsi di Nerone, persino del ' matricidio. Nel De clementia dette formulazione teoretica a quella concezione della monarchia illuminata che era cara agli stoici più d'una irrealizzabile restaurazione repubblicana: il vero re si contrappone al tiranno e Seneca ne addita l'esemplare più famoso in Alessandro, che definisce ladro e bandito. La sua teoria svolge temi dell'oratoria ellenistica e avrà ampio sviluppo al volger del I secolo, quando Plinio e Dione di Prusa saluteranno in j | Xraiano u prmcipe pàterno , e . m , EUo I Aristide fara altrettanto con Marco Aurelio, i panegiristi gallici con gli imperatori del III-IV secolo. Ma in quella regalità provvidenziale la fun- DgvtcdmdIlmstndgrfrlctM I assicurato a Roma la supre zione del cittadino recede da esercizio di diritti e doveri a « nobile servizio ». Alla guida di colui che sperava indirizzare al bene, Seneca fu più che precettore e consigliere. Governò l'impero e raggiunse quell'equilibrio con l'impero partico che era stato perseguito invano da Augusto in poi e che, pur senza conquiste territoriali né vantaggi economici, avrebbe o n n s a . mazia su l'Oriente. Posando la corona sul capo di Tiridate, in uno scenario teatrale e mistico, Nerone avrebbe raccolto i frutti di quella sagace politica. Ma il moralista falli nell'ambizioso disegno di istillare in un potente i principi della sua filosofia, che era didattica più che teoria, norma di condotta più che etica sistematica. Quando senti che era opportuno ritirarsi a vita privata, raccolse, o compose, queste operette morali che, nella loro problematica, sono consone all'animo d'un esule in patria. Emerge da . j esse la figura ideale del sag a a i n . e e e ) oagio, animato da solidarietà fraterna verso tutte le creature, esempio di fermezza nei pericoli, obbediente ai voleri della Provvidenza anche nella sventura. La libertà a cui anela non è più quella dei tempi repubblicani: è pace dello spirito, è solitaria ascesi, è, infine, la morte, che, come scrive a Marzia, « libera da tutti i mali » e consente all'anima di tornare a immergersi nel cielo da cui deriva. Nel De otio, egli anticipa la Città di Dio agostiniana, poiché distingue la patria interiore, universale e invisibile, da quella terrena, dove ci fa nascere il caso: e, a differenza degli eroi dell'antica Roma, è alla prfma che sente di dover dedicare il meglio di sé. Sono principi da romano? Il cosmopolitismo astratto, l'eguaglianza, l'istanza della monarchia universale, il disinteresse dalle attività politiche, la contemplazione sono tratti negativi nella scala dei valori romani: quand'era giovane, scrive in una lettera, fu dissuaso dal padre dal farsi conoscere per vegetariano (lo era in ossequio alla dottrina pitagorica): la cosa poteva metterlo in cattiva luce. Gli uomini del suo stam¬ po, infatti, anche senza incriminazioni precise, erano visti come contestatori, invisi appunto perché manifestavano il loro dissenso nell'astensione e perché erano circondati di grande prestigio. Il suicidio, cui ricorrevano con tanta facilità, era un atto spregevole, condannato dall'antico diritto pontificale, mentre Ulpiano acutamente distingue chi lo commette per taedium vitae da chi per cattiva coscienza. Erano morti teatrali e inutili, poiché non rendevano un servizio al paese: è l'opinione di Tacito, che deplora quella prontezza a « supinamente morire ». Erano oppositori di gran classe: nobili, ricchi, eruditi. Il loro narcisismo irritante traspare dalle ultime parole di Seneca: dopo aver libato a Giove Liberatore, si dolse che gli fosse negato di fare testamento a favore dei presenti; ma, aggiunse, « vi lascio il bene più prezioso: l'esempio della mia vita ». Lidia Storoni

Luoghi citati: Corsica, Inferi, Roma