Al Cairo, parole di guerra di Igor Man

Al Cairo, parole di guerra Nella metropoli, ufficialmente oscurata, splendono le luci Al Cairo, parole di guerra Sadat ha annunciato che, entro il 31 dicembre, la vertenza con Israele sarà decisa, e la decisione si chiama guerra In realtà, nella capitale dell'Egitto postnasseriano, ricchissima e povera insieme, nessuno crede realmente ad una avventura militare - L'importante, per la nuova classe dirigente, sembra essere, soprattutto, il « salvare la faccia » P"1 nostro inviato speciale) 11 Cairo, 17 dicembre. Si vive all'insegna della contraddizione. E' annunciato lo sgombero delle donne e dei bambini da Port Said, Suez e Ismailia. Tuttavia è in corso l'organizzazione di un pellegrinaggio alla Mecca che porterà tra qualche settimana trentamila egiziani in Arabia Saudita. Tra i pellegrini anche la moglie di Hcykal, il giornalista numero uno dell'Egitto. Viene ordinato l'oscuramento delCairo ma la città, invece di piombare nel buio, continua a sfavillare di luci. Giungendovi di notte, dall'alto dell'aereo, la capitale sembra tuia tiara di gemme fosforescenti, incastonata nel vasto deserto nero. La vernice blu passata dagli automobilisti sui fari s'è già scolorita, le vetrate dell'Hilton sono rimaste terse e spandono gran luce. Solo la torre sul Nilo è buia, in compenso il ponte di Zamalek spicca nottetempo illuminato com'è da lampioni giallastri; è vero che ne vengono accesi solo la metà, ma bastano a conferire ai leoni che montano la guardia al ponte un'aura da son et lumière. La «mobilitazione delle milizie popolari», in vista di quella dell'intero Paese, si riduce a qualche ora di svogliato addestramento nelle scuole secondarie. In un comizio agli universitari del Cairo, Mohamed Abdel Salam El-Zayyat, primo segretario del comitato centrale dell'Unione socialista araba, dichiara solennemente che per l'Egitto, cadute oramai tutte le speranze di una soluzione pacifica, non c'è alternativa alla «battaglia», e aggiunge che per mobilitare l'opinione pubblica, nell'imminenza dello scontro, è urgente formare dei «consigli nazionali speciali» a tutti i livelli di attività: questi consigli verranno costituiti... nel prossimo gennaio. Si predica l'austerità, tuttavia mai come in questi giorni II Cairo vede circolare automobili nuove di zecca. I negozi rigurgitano di beni di consumo, i mercati sono stracolmi e la gente non fa che comperare. Al Khan Khalili, il grande bazar, il signor Zaki, uno dei mercanti più cospicui, mi dice: « Comperano tutti e ogni cosa, non solo gli stranieri, ma anche e soprattutto gli egiziani ». L'Egitto ha debiti per duemila milioni di dollari, il bilancio militare per quest'anno è di mille miliardi di lire italiane: il raccolto del cotone è in pericolo; il reddito medio prò capite tocca all'incirca le 74 lire egiziane l'anno (una lira egiziana è uguale a 1440 lire italiane), ma di denaro ne circola tanto, la gente spende e spande. La " gente bene" Gli alberghi sono affollati di turisti, vengono in massima parte dai paesi del petrolio, (Libia, Arabia Saudita. Kuwait, Emirati del Golfo) desiderosi solo di divertirsi: svuotano i bei negozi di rue Schawarbi, affollano le sale da gioco, i locali notturni. Le notti del Cairo sono quasi più animate di quelle di Beirut, per trovare un tavolo in uno dei tanti ristoranti sulla via delle Piramidi è necessario prenotare con ragguardevole anticipo. All'Hilton, al Semiramis. allo Sheraton, le danzatrici del ventre, a mezzanotte, devono bissare « la mossa » almeno dieci volte. La « gente bene » del Cairo (i nuovi borghesi figli della « rivoluzione nasseriana », gli ufficiali in licenza, gli alti funzionari, i giovanotti vestiti all'italiana) frequenta l'« After Eigfit », la discoteca più elegante della città dove si mangia prelibatamente, squassati da ondate di musica stereofonica in un caleidoscopio dì proiezioni psichedeliche. Le conversazioni vertono su di un unico tema: la « scadenza » del 31 dicembre. « L'anno 1971 sarà quello della grande decisione, guerra o pace. Dobbiamo uscire dall'incertezza e io vi dico che lo faremo entro il 31 dicembre, anche a costo di un milione di martiri », proclamò il presidente Sadat il 23 luglio. L'S agosto, in un altro discorso, aggiunse: «Dobbiamo prendere una decisione prima della fine del '71 »; ripetè suppergiù lo stesso concetto il 12 agosto, il 16 settembre, jl 29 settembre e l'S di ottobre. Idem il 12 novembre rivolgendosi al Parlamento, dove, peraltro, disse: « Dobbiamo prendere la decisione nel momento giusto e nel giusto modo, nelle circostanze a noi più favorevoli ». Infine, il 20 novembre, in divisa di comandante supremo delle forze armate, Sadat si reca al fronte e parla ai soldati in occasione del Bairam, la festività che segna la fine del lungo digiuno del Ramadan: «La decisione è presa. Di fronte all'inutilità dei nostri sforzi pacifici abbiamo scelto la battaglia. Arrivederci, fratelli e figli, nel Sinai, Indi'Allah (a Dio piacendo) ». Che accadrà il 31 di dicembre? Poiché Israele ha già detto che respinge la risoluzione approvata a gran maggioranza dall'Assemblea dell'Orni, sbarrando così in pratica la strada alla ripresa della missione Jarring. sarebbe logico attendersi una prossima ripresa delle ostilità da parte egiziana. Niente affatto, risponde un allegro cliente dell'«After Eight». « Alla vigilia della fatidica scadenza, il presidente Sadat firmerà un decreto legge che proroga di 24 mesi il 1971 ». Grosse risate, nuovo giro di whisky. « C'è un equivoco — salta su un altro bello spirito —, quando Sadat dice 1971 si riferisce all'anno dell'Egira, che cadrà press'a poco tra sei secoli ». Parole tortuose Le barzellette, o nokta, come dicono gli arabi, sono abbastanza indicative dello stato d'animo della gente. Le raccontano i perditempo ma sono nate sui marciapiedi di questa favolosa metropoli che Claudel definì «tutta d'oro ma sgangherata». La gente, dunque, sembra convinta che il 31 di dicembre passerà senza scosse. In questa parte del mondo la prudenza è di rigore, l'esperienza ci ha insegnato che previsioni è meglio non farne, ma, a parte le barzellette, ci sono ben più valide pezze d'appoggio a conforto di un cauto ottimismo. Cominciamo con un articolo di Heykal che nella sua rubrica del venerdì («Con franchezza ») enuncia su Al Ahram una sorta di « filosofia della decisione». Il più autorevole giornalista egiziano scrive a commento dei discorsi di Sadat che sarebbe sbagliato pensare come il 1971 sia l'anno cruciale nel senso da tutti pensato. « E' l'anno decisivo, ma non è certo quello della soluzione finale. Quel eh'è decisivo è la decisione. Per quanto riguarda la fissazione dei tempi, dipende da un'altra cosa alla quale sono sottoposte le date fìsse e che per se stessa non è sottoposta a date fisse ». Un linguaggio tanto tortuoso, ermetico, impone una volgarizzazione: abbiamo deciso per la battaglia, ma ci riserviamo di stabilire come, quando e dove scatenarla. Non necessariamente, pertanto, entro il 31 dicembre o subito dopo. Una settimana fa il ministro degli Esteri egiziano Riad, in un'intervista a Time e alla televisione ameri cana. afferma che l'Egitto non è affatto sul punto di rompere il cessate il fuoco; che le bellicose dichiarazioni di Sadat (oltretutto riferite con scarso rilievo dalla Tass) non devono esser prese alla lettera. Il portavoce ufficiale del governo egiziano, signor Tahsin Bechir, mi dice: « Abbiamo già deciso per la battaglia, ma ciò non vuol-dire che ci metteremo a sparare il 1" di gennaio ». Di rincalzo viene il giornale Al Akhbar, spiegando la differenza tra guerra e battaglia. « Non bisogna confondere i due termini. La guerra è uno status, la battaglia è un'azione. La battaglia può fermarsi per ragioni politiche o militari, può essere ripresa quando tali ragioni venissero meno. Ma lo stato di guerra non finisce mai. Due sono gli obiettivi del presidente Sadat: creare lo stato di guerra, dar battaglia ». Cioè: lo « stato di guerra » è praticamente in atto, in quanto alla battaglia si vedrà. « Un fatto è certo: che la battaglia cominci domani o dopo, le nostre forze armate non hanno dubbi su chi vincerà ». E allora, quando scoccherà il momento della battaglia, chi vincerà? Qui il discorso degli egiziani si fa amaro. Pochi o nessuno mostrano di credere in una possibile vittoria: « Il nemico è troppo forte, di gran lunga superiore a noi », mi dice un alto dirigente dell'Unione socialista araba. Si spera nell'Onu « Al punto in cui stanno ls cose l'importante non è vincere quanto uscire dalle trincee dove i nostri soldati marciscono da oltre quattro anni. Se Israele si ostinerà ad ignorare le decisioni dell'Orni, la responsabilità della guerra ricadrà sulle sue spalle. Per affermare il nostro buon diritto a riavere i territori occupati con la forza non avremo altra scelta se non quella di ricorrere alla battaglia per richiamale il mondo alle sue responsabilità. Ci rifiutiamo di credere che il mondo, quando il cannone riprenderà a tuonare sul Canale, rimarrà impassibile. Una nuova guerra in Medio Oriente può provocare una più vasta conflagrazione ». Par di capire che « se e quando » gli egiziani si muoveranno, lo faranno nell'intento di « richiamare il mondo alle sue responsabilità». Ma con l'Asia in fiamme un piccolo incendio a Suez (la « battaglia ») molto probabilmente passerebbe inavvertito: per conseguenza l'Egitto rischerebbe non più un simulacro di guerra bensì un vero e proprio conflitto, il cui peso ricadrebbe tutto sulle sue spalle. Il cosiddetto « Fronte arabo » praticamente non esiste. Il re di Giordania ha dichiarato chiaro e tondo al New York Times che non ha alcuna intenzione di attaccare: « Nessuno potrà costringerci a far la guerra a Israele. E poi gli arabi non sono in grado di fare una guerra ». La Siria, ancorché animosa e fiera, è nell'impossibilità di muoversi con gli israeliani a 50 miglia da Damasco. Pochi aerei e paracadutisti che invierebbe certamente la Libia e. forse, l'Algeria: questo è tutto quello che può sperare l'Egitto. Ed è molto poco. «Condannando» Israele, la Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dato soddisfazione all'Egitto. I commenti dei giornali tradiscono l'esultanza dei circoli egiziani. La questione verrà quasi certamente riproposta al Consiglio di sicurezza. Si dovrebbe così perdere altro tempo, tanto da consentire a Sadat di riporre nel fodero la spada e varcare indenne la soglia del nuovo anno. Ma dopo? Se, come ha scritto Newsweek, non sortirà una « intesa » fra le due superpotenze per sbloccare la crisi, c'è il grave pericolo che Sadat, messo con le spalle al muro, travolto dalla spirale della sua retorica, faccia un colpo di testa. Giunto al suo nono whisky: « Meglio perdere un'altra guerra, piuttosto che perdere la faccia », mi dice un ufficiale pilota, assiduo dell'« After Eight ». Igor Man Il Cairo. La vendita di giornali e libri usati su un marciapiede del vecchio quartiere arabo (Foto Team)