Gli indiani all'assalto di Dacca di Sandro Viola

Gli indiani all'assalto di Dacca Offensiva dopo il rifiuto dei pakistani d'arrendersi Gli indiani all'assalto di Dacca Tre colonne di fanteria e mezzi corazzati avanzano sulla città martellata dalle artiglierie - I più alti funzionari del governo a Dacca si sono dimessi chiedendo protezione alla Croce Rossa - Se il comandante delle truppe pakistane non accetterà la resa si prevede una battaglia sanguinosa - Accaniti combattimenti nel Kashmir, molte vittime New Delhi, 14 dicembre. L'esercito indiano ha annunciato questa sera di avere sferrato l'attacco a Dacca dopo che le truppe pakistane si erano rifiutate di arrendersi. II portavoce indiano ha detto che tre colonne di fanteria appoggiate da mezzi corazzati e da artiglieria stanno avanzando sulla città e alcuni reparti distano appena otto chilometri dall'abitato. Il portavoce ha affermato che l'artiglieria sta bersagliando gli obiettivi militari della capitale, dove l'India spera di insediare fra breve il nuovo governo del Bangla Desh. Il ministero degli Esteri indiano ha comunicato oggi di avere ricevuto un messaggio dalla Croce Rossa Internazionale nel quale si dice che « i più alti funzionari di governo del Pakistan Orientale » a Dacca Hanno rassegnato le dimissioni e hanno chiesto protezione alla Croce Rossa. (Ap) t'india ha freità (Dal nostro inviato speciale) Calcutta, 14 dicembre. Più che dagli avvenimenti militari, il dodicesimo giorno di guerra è dominato, almeno in India, dalle preoccupazioni politiche. Le voci di fonte americana secondo le quali una parte della Settima Flotta si starebbe dirigendo verso il Golfo del Bengala, e quelle riguardanti grossi movimenti di truppe ninesi sui confini della Himalaya, hanno provocato tra ieri e oggi una forte emozione. Si parla di pressioni indebite, di ricatto, e l'eventuale movimento della Settima Flotta viene definito (col legittimo risentimento d'un Paese ex coloniale) come un residuo della vecchia politic, delle cannoniere. Ma la violenza delle reazio- ni verbali e il susseguirsi delle manifestazioni antiamericane non bastano a celare l'affanno L'impressione è che qui si prendano molto sul serio tanto gli avvertimenti americani quanto quelli cinesi. Si ricorda che il 16 settembre '65, dieci giorni dopo l'inizio delle ostilità tra indiani e pakistani. Pechino lanciò un ultimatum a New Delhi chiedendo entro 48 ore la demolizione di certe strutture difensive sul confine del Tibet, e la restituzione d'una mandria di pecore che (a quanto diceva la nota) i soldati indiani avevano sottratto in territorio cinese. Se Delhi non avesse accolto le richieste, l'India avrebbe dovuto affrontare « le gravi conseguenze» del suo rifiuto. Non fu un intervento, ma fu certo uno dei fatti che pesò di più (insieme alla minaccia americana di sospendere gli aiuti economici) sulla decisione presa dagli indiani qualche giorno dopo di sospendere le ostilità. La convergenza Pechino-Wa shington di allora fu più casuale, meno significativa di quanto non sia quella di oggi, che così netta come è segna l'inizio concreto dell'epoca tripolare. Se essa bastò allora ad arrestare l'India, non è forse probabile che vi riesca anche adesso? A Delhi, dove dieci giorni fa si escludeva nel modo più totale la possibilità d'un allargamento del conflitto, s1 comincia a essere da ventiquattro ore piuttosto preoccupati. Il terzo veto sovietico non basta a rompere l'isolamento diplomatico dell'India, questo Paese che per due decenni ha goduto d'un grande prestigio nell'ambito della politica internazionale, e ora conosce il suo più difficile momento diplomatico. Vecchi amici come l'Egitto (che nel '65 non aveva risposto all'appello della solidarietà islamica lanciato dal Pakistan) sono oggi su posizioni antindiane. Soprattutto nel continente, in Asia, il vuoto attorno a Delhi si è fatto pesante. Persino Stati vassalli come il Nepal, o tradizionalmente antipakistani come l'Afghanist:.n. non se la sono sentita di votare all'Onu in favore dell'India e si sono astenuti. E' perciò che un certo affanno comincia a trapelare dalle dichiarazioni dei dirigenti indiani , e anche sul campo di battaglia, gli indiani non hanno molto tempo a disposizione per mettere l'opinione pubblica mondiale di fronte al fatto compiuto dello smembramento del Pakistan. Ma i loro piani militari, pure lucidissimi, si sono scontrati con la resistenza disperata delle truppe pakistane nel Bengala Orientale, che accettando di farsi ammazzare stanno fornendo il tempo, e lo spazio politico, di cui il fronte filopakistano ha bisogno per fermare l'India. Khulna resiste ancora, infatti, e se la battaglia intorno a questa città deve essere considerata una prova generale della battaglia di Dacca, si può pensare che l'ingresso delle truppe indiane nella capitale bengalese non sarà affare di uno o due giorni. La battaglia di Dacca comincia in queste ore, e se all'ultimo momento il generale Niazi (che comanda le truppe pakistane nella ^ittà) non accetterà di arrendersi, sarà una battaglia sanguinosa. Come è già stata d'altra parte, sinora, la prima fase della guerra. Gli indiani hanno avuto, dal 3 dicembre, quasi 2000 morti e oltre 5000 feriti, mentre i dispersi sono 1662. Sandro Viola ai Dacca. Una veduta della capitale del Pakistan orientale dopo i bombardamenti dell'aviazione indiana (Associated Press)