Un Verdi "politico"

Un Verdi "politico" (Dal nostro inviato speciale) Milano. 8 dicembre. Due teatri hanno inaugurato quest'anno la loro stagione col Simon Boccanegra: la Scala e, circa un mese addietro, il Teatro Verdi di Trieste. L'anno venturo lo farà Catania. C'è dunque un vero c proprio rilancio di quest'opera nata male, nel corso di quella crisi di crescenza seguita alla raggiunta perfezione di Rigoletto, Trovatore, e Traviata, ed iniziata coi Vespri siciliani. Una cupa storia Verdi era affezionato a questa cupa storia di bassi e baritoni, un concentrato dei temi a lui cari: i problemi della ragion di Stato, la solitudine del trono, il divorzio tra il potere e gli affetti privati. Non si rassegnava al suo insuccesso, e in tarda età, dopo l'Aida e dopo la Messa da requiem, nel 1881 si accinse a raddrizzare le gambe di questo tavolo zoppo, come diceva lui, con la collaborazione librettistica di Arrigo Boito. E fu, tra l'altro, la prova generale della composizione di Otello. Ne è risultata un'opera in tre atti e un prologo, sempre oscura e tenebrosa, dove il prologo marcia assai bene, con quella franca disinvoltura narrativa che Verdi sta conquistando in questo temilo (si pensi al primo quadro della Forza del destino e lo si confronti alla lunga, incomprensibile filastrocca di Ferrando per spiegare l'antefatto del Trovatore). Contiene inoltre un ragguardevole arioso del basso, « Il lacerato spirito », che intrecciandosi coi lamenti funebri del coro ricorda da vicino la situazione del « Misererà » nel Trovatore. Segue un primo atto dove alla improntitudine melodica, quasi un poco gaglioffa, della prima parte, segue una colossale scena, interamente aggiunta nel rifacimento del 1881, che è una delle più grandi creazioni di Verdi c pertanto dell'intera musica di ogni tempo e luogo. Un solo termine di confronto si potrebbe immaginare per questa ricreazione musicale della seduta di un organismo politico, turbata dall'irruzione di un tumulto popolare, e l'onchiusa con la scena tre menda dell'automaledizione a cui il doge popolano costringe un traditore: i cori tumultuanti della « Passione secondo San Matteo », dove gli ebrei vociferano che Barabba venga liberato e Gesù Cristo crocifisso. Siamo a questa altezza, senza nessuna esagera zione. Perciò è naturale e ne cessano che quest'opera si continui a rappresentare, an che se dopo la schiacciante potenza del finale del primo atto, secondo e terzo faccia no figura di due innocui bic chieri d'acqua fresca: il vuoto perfetto. La vocazione politica dell'urte di Verdi trova in quel finale la sua più alta realizzazione, insieme al Don Carlo. E, incidentalmente, quale dura pietra d'inciampo esso costituisce-, con la sua sprezzante professione di fede aristocratica, per le teorie di quelli che vogliono a tutti i costi giustificare certa volgarità stilistica delle opere verdiane giovanili scorgendovi l'ingresso trionfante del quarto stato nel dominio musicale! Affidandosi ad artisti di gusto aggiornato e severamente critico, come Claudio Abbado e Giorgio Strehler, la Scala ha rinunciato alla tentazione dello sfarzo e delle messe in scena faraoniche, con sfoggio di veli, lustrini e quadri decorativi fine a se stessi. Ha dimostrato così che l'inaugurazione della stagione può essere qualcosa di meglio che un fatto di color locale come il panettone. Verdi sarebbe stato contento del modo con cui direttole e regista, e il magnifico quartetto vocale dei protagonisti, hanno salvato quanto è umanamente salvabile del suo caro Simone. Praticamente, tutto l'enorme blocco del prologo e del primo atto (eseguiti senza intervallo). E sa il cielo se non manchino lungaggini e cedimenti nella prima metà del primo atto! npcfcGqid "Simon Boccanegra,, alla Scala Un Verdi "politico" Nell'opera un concentrato dei temi cari al compositore: la ragion di Stato, la solitudine del trono, il divorzio tra potere e affetti privati - L'orchestra diretta da Claudio Abbado, con regìa di Strehler - Interpreti: Cappuccini, Raimondi, Mirella Freni, Gliiaurov La direzione di Claudio Abbado ripulisce la partitura di tutti quegli infernali accenti sforzati che i direttori dozzinali seminano nella musica di Verdi, trattando le note come se fossero bastonate. Né ciò va a scapito dell'energia virile che è, in questo dramma d'uomini di ferro, la facoltà suprema dell'arte di Verdi. La bacchetta di questo giovanotto solleva l'orchestra e il coro in ondate possenti di sonorità, ma, appunto, sono ondate, omogenee e piene, non occasionali ed isteriche sferzate. Piero Cappuccini protagonista (e già lo era stato poco prima a Trieste, sotto la bacchetta di Gavazzeni, in un'esecuzione che pur con minori forze a disposizione non mancava di buone idee) e Nicolai Ghiaurov, deuteragonista, in quella parte di Jacopo Fiesco in cui Verdi ha realizzato uno dei suoi tipici vecchioni desolati dall'esercizio del potere, sono una c'oppia che dev'essere considerata ed elogiata insieme. Certo, Ghiaurov torreggia, per statura e possanza di voce, ma non mette in ombra il bravo Cappuccini, che sa essere potente e tenero, terribile e commovente. Inoltre, sia effetto del caso, sia merito di chi li ha messi insieme, non si potevano trovare due voci meglio assortite. Basta il loro colore a determinare i due caratteri. Squisiti interpreti Generalmente, quando un teatro mette in scena Simon Boccanegra, punta tutto su questi due personaggi, che sono i principali. Che gli interventi di Amelia Grimaldi e di Gabriele Adorno si potessero questa volta godere pienamente, senza dovere far uso d'indulgenza, e anzi quasi con l'impressione di passare da una meraviglia all'altra in fatto di beltà di voce e di squisitezza interpretativa, è grande merito del soprano Mirella Freni e del tenore Gianni Raimondi, che hanno fatto il miglior uso possibile delle loro parti, di valore musicale decisamente minore. E' chiaro come il sole che, a Verdi, dell'amore di Maria e Gabriele non gliene importava un bel niente. Gli premevano solo le accidentate passioni politiche del doge, dei nobili e dei popolani. Questi ultimi hanno avuto in Felice Schiavi e Giovanni Foiani due buoni rappresentanti vocali. Gianfranco Manganotti e Milena Pauli hanno degnamente sostenuto le loro piccole parti. Meraviglioso il coro, istrui¬ dolfi. I Se qualcuno poteva temere ! che esecuzioni di questo tipo cioè filologicamente corrette e di gusto moderatamente moderno, non siano gradite al pubblico, il successo trionfale riportato da questo Simone l'avrà convinto del contrario. I Anzi, unico neo della serata sono stati gli applausi che crepitavano con insistenza e in qualche caso francamente inopportuni, tanto da far desiderare una vera e propria concertazione della claque e una adeguata istruzione del pubblico. Massimo Mila Danze di fiaccole Strehler ha preso il dramma per quel che è, un dramma cupo e buio, perciò ha avvolto nelle tenebre le scene un po' schiaccianti, ma eccezionalmente funzionali di Ezio Frigerio, accendendovi dentro danze di fiaccole che parevano il purgatorio dantesco. Da tanta oscurità ha tratto risalto, nel prologo, il solo momento di luce, l'acclamazione popolare di Simone al dogato: con una ronda vorticosa di masse popolari festeggianti, Strehler ha magistralmente giustificato il l'ontenuto musicale del passo, che potrebbe sembrare sbilanciato verso un'allegria a buon mercato, di vecchio stampo bandistico. Invece, interpretato a questo modo c chiarito dalla scena, anche l'intermezzo « brillante » oi sta benissimo.

Luoghi citati: Catania, Milano, Trieste