La lunga marcia di Nixon di Gianfranco Piazzesi

La lunga marcia di Nixon COME SI È PREPARATO IL VIAGGIO A PECHINO La lunga marcia di Nixon Fu Ceausescu che gli fece venire in mente, due anni e mezzo fa, d'incontrarsi con Mao attraverso la mediazione romena L'invito in Cina ai giocatori americani di ping-pong rivelò che il filo rosso tra Kissinger e Ciu En-lai funzionava a dovere - Neppure l'ultima difesa di Formosa riuscì a compromettere la sapiente regìa con cui l'America capovolgeva la sua politica in Asia Roma, 1 dicembre. Nixon pensò per la prima volta a una possibile visita in Cina due anni e mezzo fa, poco dopo il suo ingresso alla Casa Bianca. A fargli venire in mente quest'idea fu il presidente romeno Ceausescu, l'unico leader comunista che allora fosse in buoni rapporti con lui e il solò che lo avesse ricevuto con gentilezza quando, nel 1967. il futuro Presidente degli Stati Uniti aveva fatto in privato un viaggio di studi nell'Est europeo. Una sera di aprile del 1969 Ceausescu, durante un ricevimento, prese in disparte l'ambasciatore degli Stati Uniti, Richard H. Davis: « Non sarebbe simpatico — disse Ceausescu con un sorriso — che il nuovo Presidente americano tornasse a Bucarest a far visita ai vecchi amici? ». L'ambasciatore si affrettò a telegrafare un lungo rapporto a Washington, ma i funzionari del Dipartimento di Stato lo accolsero con aperto scetticismo. Secondo loro, era meglio lasciar cadere la proposta perché Nixon non avrebbe ottenuto dal viaggio in Romania nessun risultato tangibile, dato il relativo peso specifico di Ceausescu sul piano internazionale, e invece il Presidente avrebbe di sicuro irritato i sovietici. A Bucarest Kissinger, il consigliere di politica estera alla Casa Bianca, fu invece, di diverso avviso. Per lui non era affatto vero che un viaggio a Bucarest non significasse niente; anzi valeva la pena rischiare qualche iniziale incomprensione con Mosca, pur di dimostrare a tutti che la nuova amministrazione americana non considerava più l'Unione Sovietica come l'unico valido interlocutore comunista. Fin da allora Kissinger si augurava che i cinesi si rendessero conto che se un presidente americano era pronto a recarsi a Bucarest, a maggior ragione sarebbe stato disposto a raggiungere Pechino. La tesi di Kissinger prevalse e l'ambasciatore Davis seppe che la Casa Bianca aspettava un invito ufficiale. Kissinger, tre ore do- e i o r o a n e l e a ici à a el opo aver ricevuto il cablo da Bucarest, convocò Corneliu Bogdan, l'ambasciatore romeno a Washington, per comunicargli che il Presidente era felicissimo di accettare. Durante tutto il 1970 alla diplomazia americana non mancarono le occasioni per far conoscere ai cinesi il vero significato del viaggio a Bucarest, qualora non lo avessero capito da soli; frequenti contatti con Pechino furono certamente stabiliti, attraverso la compiacente mediazione di qualche amico comune, magari degli stessi romeni. Nixon, comunque, dette un chiaro segno del suo nuovo orientamento verso la Cina il 26 ottobre del 1970, durante un pranzo alla Casa Bianca in onore di Ceausescu, che restituiva la visita dell'anno prima. Nel suo brindisi di saluto all'ospite romeno, Nixon parlò d'una « Repubblica Popolare Cinese ». rompendo una tradizione diplomatica che ormai durava da vent'anni. Infatti dal 1949 tutti gli uomini di goterno degli Stati Uniti avevano sempre parlato di una « Cina rossa » o dì una « Cina comunista », sia per ribadire la loro ostilità al regime di Pechino, sia per solidarietà con Ciang Kai-shek, che sosteneva di essere il rappresentante legittimo tanto dei dodici milioni di cinesi di Formosa, quanto dei 750 milioni che abitavano nel continente. Qualche mese più tardi, il diverso orientamento fu chiaro per tutti. Il 25 febbraio scorso JVjxon, riprendendo una felice tradizione incominciata l'anno prima, inviò al Congresso un lungo rapporto — 235 pagine — in cui erano definiti con notevole chiarezza tutti i principi della politica estera americana; e ai rapporti con la Cina erano ormai dedicati alcuni interessanti paragrafi. Diceva il Presidente: « L'ostilità che da ventidue anni esiste fra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese è un problema non ancora risolto, ed è un problema serio, perché determina le nostre relazioni con 750 milioni di persone piene di capacità e di buona volontà ». Ormai il Presidente, oltre a parlare di Repubblica Popolare Cinese, e a dare un benevolo giudizio sui suoi abitanti, si diceva dispiaciuto che i rapporti fra i due popoli non fossero migliori. Con un linguaggio accorto e sfumato, Nixon si preoccupava di precisare che l'America non voleva « trarre alcun vantaggio dall'ostilità fra l'Unione Sovietica e la Cina comunista » e che era pronta a giudicare il comportamento cinese, come già quello russo, « non dalla sua retorica bensì dalle sue azioni». E il Presidente così concludeva: « Noi siamo pronti a un dialogo con Pechino. Noi non possiamo accettare i suoi presupposti ideologici, e nemmeno che una Cina | comunista eserciti un'egemo¬ nia in Asia, ma non vogliamo neppure imporre alla Cina una posizione internazionale che neghi i suoi legittimi interessi nazionali ». Quest'apertura di Nixon fu provvidenziale, perché sopraggiunse proprio nel momento in cui i rapporti fra gli Stati Uniti e la Cina Popolare furono sul punto di ritornare drammatici. Il 7 febbraio i paracadutisti sudvietnamiti, " con l'appoggio dell'aviazione americana, erano penetrati nel Laos, nel tentativo d'interrompere la pista di Ho Chi Minh e per quanto, ne]Xa sua conferenza stampa, il Presidente avesse esplicitamente rassicurato Pechino, era comprensibile che i nordvietnamiti restassero di diverso parere. Il 5 marzo Ciu Enlai era ad Hanoi e certamente i nordvietnamiti sarebbero stati molto contenti s'egli avesse colto l'occasione per rivolgere agli Stati Uniti un monito minaccioso. Il primo ministro cinese mostrò invece un'insolita prudenza: si limitò a dire che un Vietnam forte e risoluto era capace di far fronte a qualunque difficoltà. i Mal di stomaco Già allora Kissinger e Ciu En-lai avevano stabilito qualche segreto canale di comunicazione e il loro « filo rosso » aveva retto a una prova abbastanza severa. E da quel momento gli eventi precipitarono. Nixon confidò ai suoi aiutanti di sperare che presto la Cina si sarebbe dischiusa ai primi turisti americani e di essere convinto che, « un giorno », anche lui stesso avrebbe potuto visitare Pechino: e i funzionari della Casa Bianca si affrettarono a confidarsi con i giornalisti. Appena quindici giorni dopo, i cinesi invitavano a Pechino una squadra di giocatori americani di ping-pong. I giornalisti non mostrarono un acume particolare: in fondo i cinesi, che si erano precipitati ad esaudire il primo desiderio del Presidente, potevano tener conto anche del secondo... Ma quando Kissinger. durante un viaggio in Asia, accusò mal di stomaco e scomparve per due giorni dalla circolazione, nessuno sospettò che il consigliere di Nixon se ne fosse andato in Cina. E quando Nixon. sette giorni dopo, chiese a una stazione televisiva cinque minuti di tempo per rivolgere un messaggio al Paese, nessuno previde l'annuncio del viaggio a Pechino. A parziale discolpa dei giornalisti va tuttavia osservato che i funzionari americani, i quali di solito par: lano anche troppo, sulla Cina sono sempre stati molto reticenti. Anche la seconda missione di Kissinger a Pechino, avvenuta nell'ottobre scorso, è stata rivelata ai giornali solo alla vigilia della partenza, e non è mai sta¬ ta fornita una spiegazione davvero convincente sul perché di questo nuovo viaggio. Che bisogno c'era d'un uomo come Kissinger per definire gli ultimi dettagli organizzativi d'una visita di Stato? Che cosa si sono detti, in questa seconda occasione, il consigliere di Nixon e il primo ministro cinese? Proprio in quei gior¬ ni, poi, si svolgeva al Palazzo di Vetro una memorabile battaglia diplomatica sull'ingresso della Cina alle Nazioni Unite. La presenza di Kissinger a Pechino convinse molti alleati degli Stati Uniti a non essere più realisti del re e al segretario di Stato Rogers, che dirigeva la battaglia all'Onu, riuscì impossibile raccogliere una maggioranza sufficiente per impedire l'espulsione di Formosa. Doppio gioco? Qualcuno pensò addirittura a un doppio gioco americano, cioè a una diplomazia in apparenza decisa a difendere Ciang Kai-shek e segretamente contenta della sconfitta; ma chi era a New York in quei giorni, e potè rendersi conto delle pressioni che Rogers esercitò sui Paesi che pensava di convincere, non riesce a credere a tanta simulazione. Fino ad oggi non si hanno dati sufficienti per chiarire l'atteggiamento, in apparenza contraddittorio, tenuto in quei giorni dagli americani più importanti: resta il fatto che al Palazzo di Vetro Rogers si batté con estrema energia mentre Kissinger, per il semplice fatto di restare a Pechino, gli disfaceva una tela tessuta con tanta fatica. Comunque Kissinger, al suo ritorno in patria, fu laconico come sempre: entro il novembre sarebbe stata resa nota la data del viaggio presidenziale. La promessa è stata mantenuta il 29 del mese, quando a Washington certamente qualche voce allarmante era tornata a circolare. E qualcuno non ha potuto fare a meno di scorgere, in questo annuncio in extremis, l'ultimo tocco di una sapiente regìa. Gianfranco Piazzesi Un disegno di Levine: Richard Nixon dorme sonni tranquilli fra l'orso sovietico e il libretto rosso del presidente Mao (Copyright N. Y. Review of Books. Opera Mundi e per l'Italia La Stampa)