Burri, artista dei sacchi di Marziano Bernardi

Burri, artista dei sacchi Una grande mostra da oggi alla Galleria d'arte moderna Burri, artista dei sacchi Veni'anni di attività del pittore umbro, esaltato da alcuni, discusso da altri - I Sacchi, i Catrami, le Muffe, i Legni, le Combustioni di varie materie, i Ferri, le Plastiche, i giochi di cellophane e infine il ritorno a un'astrazione pura - Un trionfo della materia sull'immagine, che si può anche ammirare: con tristezza Alberto Burri, del quale oggi alle 17,30 s'inaugura nella Galleria civica d'arte moderna di Torino una grande mostra riassuntiva d'un ventennio di lavoro con 61 opere dal 1049 al lilfi!), è uno dei nodi centrali della pittura (se nel suo caso la parola è accettabile) contemporanea internazionale. Nel suo libro del 19fi3 (Burri, Roma, Editalia) Cesare Brandi, l'esegeta, Ira l'altro, di Duccio da Buoninsegna, è stato esplicito: « Di tutti i protagonisti della nuova pittura nessuno individua il momento attuale con l'originalità e la forza di Burri ». Dal critico al poeta non v'è esitazione: «Il grande Burri», esclamò Giuseppe Ungaretti, prossimo a entusiasmarsi del tramontato Fautrier. Ora si unisce al coro, che echeggia dall'Europa all'America, una voce per Burri già viva fin dal 195!): quella di Maurizio Calvesi che all'artista umbro, in aggiunta a una bibliografia impressionante, dedica un altro volume (Alberto Burri, Milano, Fratelli Fabbri, 1971), di poco precedente il saggio di Aldo Passoni per il catalogo della mostra torinese. Fra questi testi il visitatore potrà orientarsi in un accostamento a quadri che a prima vista appaiono ostici e provocatori, repellenti e irritanti. Dal canto suo Burri ha dichiarato da tempo: « Le parole non mi sono d'aiuto quando provo a parlare della mia pittura. Questa è un'irriducibile presenza che rifiuta di essere tradotta in qualsiasi altra forma di espressione »; una dichiarazione traudiente che quasi sembra vanificare ogni impegno critico. Singolare la sua vicenda umana. Nato a Città di Castello nel 1915, laureato in medicina pensa di esercitarla in Africa nella cura delle malattie tropicali.» forse a ciò indotto anche dalla passione per la caccia. E in Africa infatti ci va, ma come medico militare durante la guerra. Fatto prigioniero nel '43 è portato nel Texas e per riempire le lunghe giornate del campo di Hereford comincia a dipingere. Peccato che non sia esposto alla mostra un incunabolo, il Paesaggio del 1944, adesso di collezionista romano. Si vedrebbe un quadro totalmente diverso da quelli presenti: che però turberebbe il mito del Burri divenuto famoso coi Sacchi, coi Gobbi, con le Combustioni, coi Ferri, con le Plastiche. Un quadro dipinto in una luce rossa di tramonto, reale ed irreale insieme, per esprimere una sensazione di solitudine, di silenzio, di malinconia. Opportunamente Brandi lo pubblicò (non cosi Calvesi che dà principio alla documentazione con una Composizione astratta del '48), ma di esso negando qualsiasi intenzione naturalistica — ed espressionistica tra Munch ed Heckel — ed insistendo invece sul suo interesse « materico », cioè sul colore d'un quadretto già discretamente suggestivo: « Quel moto di colori non è volto a mimare il vero, tende a valore per se stesso... E', dunque, "in nuce" la scoperta della materia... Perciò vi è anche, "in nuce", tutto il futuro di Burri ». A noi pare proprio il contrario. La materia diffusa e rossastra, cioè un colore usato per « rappresentare » uno specifico soggetto, al modo tenuto da milioni di quadri del passato (e speriamo cosi si continui in un domani non lontano), è impiegata da Burri per esprimere una realtà poetica ch'egli, in un determinato momento, ha sentito sorgere in sé nel desolato campo di Hereford. Ma tant'è: la critica che postula, inventandola, una propria visione interpretativa e in questa caccia a forza ogni singolo momento creativo d'un artista, non può ammettere che il campione della « esistenzialità della materia » si sia inizialo alla pittura su una linea di tradizionale rappresentazione realistica del mondo e dei sentimenti, e soltanto in seguito, cedendo alla ventata astrattistica del dopoguerra, si sia convertito all'antifigurale. Rimpatriato, e ben deciso ad abbandonare la medicina per la professione artistica, a Roma Burri passa per gradi dalla pittura al collage. E* — com'è stato scritto — « veramente indenne dal passato dell'arte» (non andrà a Parigi che nel '49), in una condizione di assoluta disponibilità. Anni cruciali. Firmerà nel '51 il manifesto del Gruppo Origine che intende « riproporsi il punto di partenza moralmente più valido delle esigenze "non-figurative" dell'espressione », ma ha pochi punti di contatto col pittore Capogrossi e lo scultore Colla, altri firmatari. E nel '50 ecco i primi Sacchi, lo straccio consunto, rappezzato, miserabile, di tela juta di sacco, teso su un telaio e presentato come quadro, « lurido stendardo, insegna di.una civiltà che distrugge se stessa». Una provocazione, uno spregio, una beffa, uno schiaffo in faccia all'osservatore ester¬ repi« seS«mP refatto, o un malinconico ripiegamento psichico, quasi « sentimentale » dell'artista su se stesso? Calvesi ha visto nei Sacchi, che Brandi proclama «gloria prima di Burri», l'amarezza ed insieme l'estetica, orgogliosa esaltazione della povertà dell'italiano il cui pane dipende dai rifornimenti alleati, particolarmente Usa, che appunto giungevano in sacchi stampigliati « Italy ». Ma tra il '50 ed il '55, perio- do eroico dei Sacchi, l'Italia non moriva più di fame, anzi si gettavano le basi del « miracolo ». Quindi cade l'ipotesi; subentra la tesi di Brandi, che cita Tiziano e Tintoretto, i quali — dice — tanto subirono l'attrazione della granulazione della tela, da far di questa, spesso, « quasi l'unico elemento di ritmo, per certi tratti, a cui si affidi la stesura dell'immagine ». Ma per questi antichi (come il Mantegna, per esempio, che usò lini finissimi al contrario del Veronese) « la trama della tela era solo una trama ritmica del dipinto. Burri fece un passo più in là: istituì la trama della tela come lo stesso dipinto. Un dipinto non dipinto, allo stato prenatale »: insomma, un atto « di folle audacia ». E l'immagine? E la « figura », supremo atto creativo che riflette l'anima di un uomo, la poetica di un tempo, la consistenza d'una civiltà, la trasformazione di un gusto? Ah. tutto ciò, s'intende, non conta nulla per chi affida la confessione della propria spiritualità allo stimolo sensorio d'una materia ignobile, alla pura « esistenza » dello sdrucio, del rattoppo, della ricucitura a spago d'una tela di sacco logora e sporca. Si stabilisce cosi un'equivalenza estetica (ed etica) tra questa e, poniamo, il tizianesco Carlo V alla battaglia di Miihlbcrg. abisso d'introspezione di coscienza. O, se si preferisce, poiché nel repertorio di Burri entrano anche i celebri Legni, sottilissime lamine di legno appiccicate a un supporto, tra il ritratto di Monna Lisa e la tavola su cui è dipinto. E allora, di fronte a certi acrobatismi intellettuali di cui è tessuto il « virtuosismo » critico d'oggidì, verrebbe voglia di ripetere il gesto di Diogene che getta il pollo spennato, il « bipede implume », nell'Accademia platonica: « Ecco il vostro uomo ». D'audacia in audacia, Burri è passato dai Sacchi, dai Catrami, dalle Muffe, dai Gobbi (la superficie della tela artificiosamente ingobbita dal rovescio per dare impressione di rilievo, di « estensione spaziale»), dai Legni, alle Combustioni delle varie materie, intese ad isolare nelle fumigazioni, « negli aloni dolenti delle bruciature, nei contorcimenti, nelle spaccature, nei sobbollimenti, le trasparenze improvvise, il prezioso tono di tannino, gli sfumati degni della calcedonia, della tartaruga, dell'ambra ». ( Brandi: e su questo punto con lui concordiamo). E dalle Combustioni ai Ferri, che sono pezzi di lamiera giustapposti, sovrapposti, connessi in varie guise o presentati a rilievo come taglienti lacerti, sulla cui intenzionale drammaticità si può fare — e la si è fatta — molta bella letteratura; e infine le Plastiche, gli immaginosi giochi formali di cellophane campiti sui fondi affocati, o spiegati in tenebrosi veli funerei. Per ultimo, il ritorno a un'astrazione pura di enormi volumi neri stagliati sul bianco, quelli « di cui sembra difficile parlare altro clic in termini di densità e di peso » (Calvesi). Tutto ciò, questo lungo percorso guidato da una vats volontà strenua, implacabile, a volte crudele, è documentato dalla mostra con un allestimento limpido che puntualizza i successivi temi di Burri, temi che tuttavia sono ripresi e frammisti, con prestiti reciproci. Trionfo della materia, dell'esistenza della materia. Trionfo scandalistico? Eh via, dov'è ormai un pubblico che si scandalizzi di quanto quotidianamente gli offrono gli attuali « operatori artistici »? E tanto meno dell'offerta di Burri: a chi brucia ancora lo schiaffo del Sacco? Non c'è più né l'« al di qua » né l'« al di là » di Burri, cui accenna Calvesi. Per qualcuno c'è soltanto un vuoto spaventoso, con la monotonia di questo vuoto. C'è soltanto, per chi considera da posizione storica ii percorso dell'arte pittorica, una grande tristezza. Il che non toglie che si possa anche — e soprattutto nel caso di Burri — ammirare, sinceramente ammirare. Ma, ripetiamo, con tristezza. Marziano Bernardi