La follia di Re Lear sulla scena desolata

La follia di Re Lear sulla scena desolata Gli inglesi al Festival di Venezia La follia di Re Lear sulla scena desolata Lo spettacolo con il Prospect Theatre di Londra (Dal nostro inviato speciale) Venezia. 1 ottobre. Uno spettacolo che s'affida soltanto alla parola come King Lear presentato alla Fenice dalla « Prospect Theatre Company » di Londra, prende subito un sapore quasi polemico in un festival dove altri spettacoli puntano di volta in volta su elementi — dal gesto alla scenografia, da una diversa organizzazione dello spazio teatrale a forme di drammaturgia aperta — che, quando non la degradano, spingono ai margini, o nell'ombra, la parola. Certo, non è rivoluzionario recitare Shakespeare su un palcoscenico nudo, altri l'hanno già fatto, da Copeau a Peter Brook, e anche da noi (penso al tentativo più recente: proprio un Re Lear allestito la scorsa estate a Milano dalla Compagnia dei Rozzi), ma può diventarlo, e suonare come una sfida o una rivincita sulle tendenze a ridurre i classici a supporto o pretesto di un altro discorso, quando la rinuncia alla scenografia s'accompagna a un rigoroso rispetto del testo. Ecco allora, su un « plateau » del tutto spoglio —. ora castello, ora landa desolata, ora attendamento o campo di battaglia —, attori in semplicissimi costumi biancastri di grezza stoffa andare e venire in ima rapida successione di scene quasi incastrate l'una nell'altra: non sono ancora usciti gli interpreti della prima che già sopravvengono quelli della seguente. Pochissimi gli oggetti di scena: oltre alle spade, qualche sgabello, i ceppi per il focoso Kent, una rozza portantina per l'infermo Lear. Le luci sono a giorno, talvolta si abbassano, ma non molto. In siffatte condizioni, la recitazione è tutto, è il solo ponte gettato verso il pubblico perché entri, e anche questo è un modo di coinvolgerlo, in una tragedia tra le più grandi e più difficili di Shakespeare e in un mondo che sprofonda nella follia al tempo stesso che la giustifica, come scrive il regista Robertson, con lo spettacolo di una sofferenza che incessantemente si rinnova e che termina soltanto con la morte. Per questo i monologhi vengono detti a voce alta, l'attore francamente rivolgendosi alla platea, per questo pochi essenziali gesti (le braccia alzate a invocare il cielo, le mani a comprimere il cuore o le tempie, le palme aperte a pestare ginocchioni per ter¬ ra nel selvaggio grido: « KM. kill, kill! ») bastano al vigoroso Timothy West per scandire le tappe di una follia meno insensata della crudeltà di chi intorno a Lear tradisce, tortura e uccide, per questo il brontolio di uno strumento a percussione — e niente lampi e fragore di fulmini o scrosciare di pioggia — subito scaraventano lo spettatore nell'uragano in cui culmina e si consuma la tragedia. Toby Robertson, che della compagnia è anche il direttore, non propone con la sua regìa, e nemmeno lo pretende, una nuova interpretazione del capolavoro scespiriano. ma indubbiamente riesce a scavarvi dentro. Anche lo spettacolo — ed è l'immancabile rovescio della medaglia — rischia per il suo stesso rigore e la sua semplicità di apparire un po' fermo, e a volta lo è, di appiattirsi in due dimensioni e di perdere un poco la sua smisurata grandezza. Questa-staticità e altri più veniali difetti sono tuttavia compensati dal dinamismo degli attori (con l'eccellente protagonista, Ronnie Stevens è un acutissimo Fool, John Shrapnel un umanissimo Edgar, Matthew Long azzecca assai bene il beffardo cinismo di Edmund, e sarebbero ancora da citare almeno Trevor Martin e le tre figlie di Lear, Diane Flechter, Caroline Blakiston e Fiona Walker) e soprattutto dall'ammirevole equilibrio di una distribuzione dove anche un servo o un cortigiano costituiscono un'indispensabile maglia, e mai una smagliatura, del tessuto interpretativo. Uno Shakespeare di routine? Può darsi, ma avercene così, da noi. Alberto Blandi

Luoghi citati: Londra, Milano, Venezia