Falsari in pittura di Marziano Bernardi

Falsari in pittura DA DUERER AI MILLE DE PISIS Falsari in pittura Mai come ai nostri giorni mercanti, collezionisti, acquirenti in genere — per gusto o per speculatone — d'oggetti d'arte antichi c moderni, e particolarmente di dipinti, hanno sofferto il « complesso » della falsificazione. L'allarme, che talvolta assume proporzioni irragionevoli, c che soprattutto converge sulle opere pittoriche mentre si dovrebbe tener conto che i falsi di pittura sono comparativamente minori di quelli di sculture e dei prodotti delle cosiddette « arti minori», come fin dal 1948 un illustre specialista, Otto Kurz, segnalava (traduzione italiana Falsi e falsari, Venezia, 1961), è giustificato dai fatti che con ritmo crescente le cronache riferiscono; e perciò si moltiplicano i convegni, le pubbliche discussioni, le «tavole rotonde» di tecnici, giuristi, critici, artisti sull'inquietante problema, si invocano in ogni paese nuove legislazioni. * * Ma non è un problema nuovo. Senza risalire alle copie ro mane di sculture greche che non erano propriamente dei falsi e comunque talora ingannarono il grande Winckelmann che le credette degli originali, esso s'affaccia già nel decimoquinto secolo. L'umanista napoletano Pietro Summonte riferisce che Colantonio, il maggior pittore quattrocentista della sua città e dotato d'eccezionale « dextrezza in imitar quel che volea », avendo avuto in prestito da un mercante un ritratto « del duca di Burgugna Carlo » eseguito da un maestro fiammingo (e Roberto Longhi , precisò poi che non di Carlo doveva essere il ritratto ma di Filippo il Buono), lo copiò con tanta perfezione che il possessore non s'accorse della sostituzione finché il Colantonio, ch'era un galantuomo, non « li scoverse lo bello inganno ». Questo fu uno scherzo elegante. Non così le falsificazioni, in verità assai grossolane, di Terenzio da Urbino, morto verso il 1625, di cui parla il Baglione e che non differiscono molto dai procedimenti attuali: « Egli andava procacciando tavole vecchie, e cornici all'antica lavorate, dal fumo annegrite, e dalle tarme corrose, ove fusse stata qualche figura, benché grossolana e mal condotta. Et egli sopra vi dipingeva... ». Tentò d'ingannare . con un preteso « Raffaello » persino il suo protettore cardinal Montalto: il quale lo mise alla porta dicendogli che quando voleva un « pasticcio » si rivolgeva al suo cuoco. Però quando Annibale Carracci fece a modo suo i Tiziano che ricorda il Malvasia, pasticci non eran certo, e alcuni ancor recentemente furono ritenuti del Vecellio. L'intero cammino dell'arte è, dall'esterno, costellato di simili episodi. Chi si scandalizza se dallo studio di un celebre artista appena defunto straripano sul mercato opere incerte, ignora la disinvoltura del nipote di Willibald Pirckheimer, l'amico fraterno di Diirer, nel vender opere che approssimativamente potevano essere ascritte al maestro tedesco. Parlò in un suo diario di certi acquerelli: « Si poteva ben dubitare per molti di essi che fossero mai stati realmente dipinti da Diirer »; e per una piccola Madonna su tavola: « MÌO padre di benedetta memoria fece sì che ci fosse apposta la firma di Diirer, ma non vi sono motivi sufficienti per ritenere che Diirer l'avesse mai dipinta. Per talleri 50 ». Pochi artisti furono falsificati come Diirer. Ci si provò con successo anche Luca Giordano, bravissimo nel « rifare » il Veronese, Guido Reni, il Correggio, Luca di Leyda. Ed a Venezia Pietro della Vecchia sfornava a volontà dei Giorgione, dei Tiziano, dei Palma, dei Pordenone che ingannavano i più acuti intenditori, mentre in Francia il Bourdon copiava magistralmente Carracci e Poussin, che si vendevano come autentici. Questi nomi, per noi, appartengono alla storia antica; ma erano di contemporanei, o quasi, per i mercanti, i collezionisti, i falsificatori di quei tempi. Il problema, dunque, rimane il medesimo, benché dilatato a un mercato immensamente più vasto. Il medesimo nei trucchi: quello, per esampio, riferito dal Kurz. Sul finir del Settecento un ignoto pittore ottenne dai consiglièri di Nbr15glprolasusuSe cospMfitiprece Fmcrpdte(ntofrvarlzrrircnndctsrsvnmficrgcdoc e Norimberga di copiare il celebre Autoritratto di Diirer, del 1500, che il Panofsky assomigliò al Salvator Mundi. Per precauzione i consiglieri bollarono con sigilli il rovescio della tavola. Il pittore la segò nel suo spessore. Tenne per sé la superficie dipinta da Dùrcr. Sull'altra riprodusse il ritratto, e la restituì coi suoi sigilli ai consiglieri. UAutoritratto oggi splende nella Pinacoteca di Monaco. Il medesimo avviene per le firme che si ritengono mercantilmente più pregiate (un capolavoro di Vermeer, Il pittore nel suo studio, fu nell'Ottocento firmato Pieter de Hooch; e quanti quadri di allievi del Fontanesi son firmati col nome del maestro?). Avviene con le imitazioni « alla maniera di » che pongono dei rompicapi alla critica; con le copie di dipinti che estremamente diffìcile rintracciare quando (ed è il caso più frequente) non esiste un catalogo completo dell'opera dell'artista; con i falsi veri e propri che talvolta raggiungono un grado di convinzione da render perplessi anche gli esperti più agguerriti. Proprio su questo punto vorremmo un istante insistere con la massima prudenza e senz'ombra di presunzione. Dalle recenti discussioni e « tavole rotonde » sul problema degli innumerevoli falsi della pittura contemporanea (un serio critico italiano, Guido Ballo, nel suo saggio Vero e falso nell'arte moderna, dichiarò che di De Pisis « sono migliaia anche i falsi »), abbiamo ricevuto l'impressione di una eccessiva sicurezza nel suggerire il rimedio per salvarsi dalle falsificazioni. Secondo un autorevole mercante d'arte di Milano, il rimedio c'è: ripulire il mercato dal sottobosco dei trafficanti è degli incompetenti, comprare soltanto nelle gallerie d'arte che danno assoluta garanzia di serietà, costituire i cataloghi dei maggiori artisti, distruggere inesorabilmente le opere apocrife. D'accordo, sono buone ricette. Ma la serietà, la probità, coincidono sempre con l'infallibilità del giudizio? Quel mercante si ritiene molto sicuro di sé, salvo il raro infortunio sul lavoro che può sempre capitare: vale a dire, è certo di identificare l'esecuzione, lo stile, insomma « la mano » di un determinato autore. Ci permettiamo di ricordargli che per un'opera nota da quasi cinque secoli, il Concerto campestre del Louvre, ci sono ancora studiosi che si schierano con Giorgione, altri con Tiziano, o vi ravvisano una collaborazione dei due maestri. Che il sublime profilo di Giovane dama del Poldi Pezzoli di Milano passò da Piero della Francesca a Domenico Veneziano, al Verrocchio, a Leonardo giovane, a Piero Pollaiolo e infine al fratello Antonio. Che la storia delle attribuzioni di centinaia ddgc o a , a a di capolavori ammirati e studiati in tutto il mondo rimane anche oggi una storia di enigmi. Che moltissimi quadri che contempliamo nei musei ci appaiono, per alterazioni varie, diversi da come furono dipinti. E' vero: vi sono autenticatoti che lamio testo; e con tanta scienza e tanta autorità che se dichiarano « è Caravaggio », « è Magnasco », automaticamente l'opera anonima diventa un Caravaggio, un Magnasco. Così lo straordinario conoscitore d'arte Wilhelm von Bode, direttore dei musei berlinesi, stentò a ricredersi quando inconfutabilmente fu dimostrato che il busto in cera della Flora, da lui acquistato per il Kaiser Friedrich Museum come « opera unica » di Leonardo, era stato modellato nell'Ottocento dal modesto scultore inglese Richard Cocklc Lucas; ed insistette, se non altro, nel ritenerlo scultura del Cinquecento. * * ' Se competenti di tal tempra presero formidabili cantonate con artisti storicamente, filologicamente, criticamente sviscerati intus et in cute, che dire di chi, esaminati alcuni buchi in un cartone, o due o tre tagli in una tela, o un assemblile di dentiere rotte, o una superficie di plastica bruciacchiata, o un rottame di ferro, giura sull'autenticità e la paternità dell'opera? Nel saggio citato Guido Ballo, esaminati lavori di Sironi, Schwitters, Kandinsky, Casorati, Morandi, Klee, Giacometti, Wols, Severini, Carrà, Rosai, Licini, Soldati, Birolli, Prampolini, Savinio, Hartung, Matta, Dova, lascia intendere che la loro contraffazione è impossibile; e come prova riproduce un certo numero di falsi di quei lavori. Ma si tratta di falsi mediocri e goffi, che saltano all'occhio. Si pensi per contro alla prodigiosa abilità di Han van Mcegcrcn, che con la Cena in Emmaus acquistata dal Museo Boymans ingannò i più ferrati conoscitori olandesi di Vermeer. Lo stesso Ragghiami, nella prefazione al libro del Kurz, ammette la « immedesimazione » tecnica, poetica e critica dell'imitatore col suo modello. E non è necessario essere un Mcegcrcn per imitare alla perfezione i molti brutti quadri che Rosai e Carrà dipinsero negli ultimi anni di vita. Quanto a De Pisis. che eseguì migliaia di dipinti, tanti da non ricordarsene più, si racconta che finisse « col firmare opere che gli presentavano come sue, e che invece non erano affatto sue » ( G. Ballo). Ma se li firmava, evidentemente li riteneva degni della firma: come i propri. Una conclusione? Per conto nostro non ci azzardiamo a proporne una. Al lettore, al collezionista diciamo semplicemente: « Messo t'ho innanzi: ornai per te ti ciba ». Marziano Bernardi