Un retroscena politico nel sequestro Gadolla di Filiberto Dani

Un retroscena politico nel sequestro Gadolla Lo "svizzero,, Vandelli vuota il sacco Un retroscena politico nel sequestro Gadolla Il «cervello» del rapimento è stato interrogato a Savona per quattro ore: avrebbe fatto i nomi di chi agiva dietro il «commando» - Il giudice conferma la previsione di nuovi arresti - Attentati a radio Gap dal nost r oJnviato Savona, lunedi mattina. Non tutti gii uomini del « commando » estremista che voleva fare la rivoluzione sono sotto chiave: qualcuno è riuscito a rimanere nell'ombra. Adesso, però, il cerchio dell'inchiesta sta per chiudersi e chi sperava nell'impunità può cominciare a contare i giorni. Il giudice istruttore, Paolo Francesco Castellano, è stato esplicito: « Questione di tempo e completeremo il mosaico con nomi, cognomi e fatti ». Come dire, appunto, che sono previsti nuovi arresti e che sarà finalmente chiarito l'inquietante risvolto politico che ha fatto da sottofondo al rapimento di Sergio Gadolla e alla sanguinosa rapina all'Istituto case popolari di Genova. L'inchiesta, insomma, ha avuto un deciso colpo di acceleratore dalla confessione resa l'altro ieri nel carcere savonese di Sant'Agostino da Diego Vandelli, il « cervello » del sequestro dello studente genovese. Sembra fuori di dubbio che il bandito, vuotando il sacco, abbia fornito preziose informazioni al magistrato, non tanto sul rapimento del «golden boy» quanto sulle imprese «guerrigliere» della banda che lo aveva assunto come consulente. Diego Vandelli, fascista, aveva da spartire con i complici, maoisti, soltanto i soldi: più che naturale, quindi, che egli si sia preoccupato di distinguere la sua posizione da quella degli altri. «Sono un mercenario — ha spiegato — e lu politica non mi interessa. Quando Renato Rinaldi mi propose di associarmi al suo gruppo, disse che avevano in mente di rapinare delle banche per finanziare la rivoluzione. Accettai, ma convinsi l'intero gruppo ad abbandonare l'idea degli assalti alle banche: non era assolutamente il caso di esporsi con azioni pericolose perché i soldi si potevano facilmente trovare con i rapimenti ». Diego Vandelli mirava soltanto ai soldi. Non si fece quindi scrupolo di trattenere per sé più della metà dei duecento milioni di riscatto pagati per la liberazione di Sergio Gadolla: in tutto 125 milioni. A sentire lui, i suoi soci non se la presero affatto per essere stati imbrogliati: i soldi ch'erano rimasti, 75 milioni, erano per loro più che sufficienti. « La sola vista del denaro, poco o tanto che fosse, li esaltava. Ricordo che al momento della spartizione, la serratura della valigia non voleva assolutamente aprirsi: partirono tutti all'assalto con coltelli da cucina, poi, come forsennati, affondarono le mani nei biglietti di banca. Il denaro, ormai, li aveva imborghesiti ». Diviso a modo suo il bottino, Diego Vandelli perse di vista il « commando »: apprese dai giornali la notizia della sanguinosa rapina di Mario Rossi (quella dell'Istituto case popolari) e del successivo arresto di Renato Rinaldi, Giuseppe Battaglia e Rinaldo Fiorani. A Roma, il giorno prima di essere arrestato lui stesso, seppe della cattura, avvenuta a Bruxelles, di Aldo De Scisciolo, Cesare Maino e Giuseppe Piecardo. E i suoi soldi, dove sono finiti? Per cento milioni, Diego Vandelli ha ripetuto la storia del tombino: li ha gettati cioè sul lungomare di Chiavari per sfuggire più agevolmente alla polizia che l'inseguiva («la valigia pesava più di 60 chili » ) ; gli altri 25 milioni in parte li ha spesi, in parte glieli hanno trovati. A questa versione il magistrato ha risposto chiaro e tondo: « Non ci credo ». E Diego Vandelli, a sua volta: « No commenl». Non ci vuole molta immaginazione per intuire che i cento milioni sono nascosti in un luogo ben sicuro e che Diego Vandelli avrà già fatto i suoi conti: potrà stare in carcere otto o dieci anni; uscendo avrà di che vivere. Resta il retroscena politico, ma su questo capitolo, che ha impegnato Diego Vandelli in un interrogatorio durato quattro ore, non si hanno indiscrezioni di sorta. Ci sono molti interrogativi che attendono risposte e l'inchiesta sembra essere prossima a fornirle. Intanto, è opinione degli inquirenti che gli otto arrestati siano stati soltanto pedine di un gioco più grosso. Chi c'era, dunque, dietro il « commando »? Finora la scoperta più interessante^era rappresentata dagli esplosivi e dagli apparecchi-radio sequestrati in un magazzino di Mario Rossi. Esplosivi: sono dello stesso e à à i tipo usato per gli attentati alla sede del psu di Quarto dei Mille, al consolato degli Stati Uniti, alla ferrovia Genova-La Spezia. Apparecchiradio: sono due, ciascuno forI nito di un gruppo alimentatore e di una trasmittente. Sintonizzati sul primo canale | della tv, quegli apparecchi j sono serviti a diffondere a I Genova e dintorni annunci e | proclami « rivoluzionari ». La prima trasmissione è | del 16 aprile 1970: quel gior! no « Radio Gap » prevede che il 18, al comizio di Almiran| te, vi saranno disordini. Vengono poi le altre trasmissioni: 26 settembre (in occasione della visita in Italia di Nixon), 22, 24 e 30 dicembre (per il processo di Burgos), 6 febbraio 1971 («Radio Gap» rivendica l'incendio al deposito Ignis di Genova-Sestri), e, infine, l'ultima, quella del 19 febbraio (per attribuirsi l'attentato alla raffineria Garrone di Arquata Scrivia). L'ultima trasmissione è stata ascoltata e registrata in tre punti diversi di Genova. Si ode una voce dall'accento genovese, ma non è quella di Mario Rossi. Le trasmittenti erano però, nel suo magazzino. Da chi le ha avute? Chi conserva le bobine con i messaggi trasmessi? Chi nasconde i detonatori degli esplosivi? Le domande sono tante, ma adesso, con i previsti sviluppi dell' inchiesta, ogni oscura piega di questa sconcertante vicenda sembra venire sotto luce. Filiberto Dani I|jI Il giudice istruttore Paolo Francesco Castellano (Telcfoto)