Il freddo mestiere di vincere di Lietta Tornabuoni

Il freddo mestiere di vincere AGOSTINI, IL MOTOCICLISTA PIÙ VELOCE DEL MONDO Il freddo mestiere di vincere E' un professionista che rifiuta gli slanci ed i miti - Anche al rischio si è allenato; prepara le corse con lucida pignoleria, perché « di troppa prudenza non si muore» e vuol far rendere al massimo le vittorie: «Nel mio vocabolario non esiste la parola gratis» - Cerca ogni piacere dell'esistenza e non ama neppure la moto, « strumento di lavoro » - Ma c'è in lui una passione più forte del calcolo: « Essere il primo è l'unica cosa che conti nella vita » (Dal nostro inviato speciale) Monza, agosto. Con cauti, goffi passi da astronauta, Giacomo Agostini cammina sulla pista dell'autodromo di Monza. Chiuso in se stesso come fosse solo, chiuso nella tuta come in una rovente armatura, lento e attento sotto il sole velenoso dell'agosto lombardo. Tiene gli occhi fissi sull'asfalto. Ogni tanto si ferma, torna indietro, guarda meglio. Ogni tanto si china, sflora il terreno, lo accarezza, lo saggia con il palmo della mano. E' un rito indispensabile, dice: « Basterebbe una rottura dell'asfalto, un'asperità imprevista: e addio. Prima di ogni gara faccio sempre il giro della pista a piedi. Oppure in macchina, ma lentamente, e di notte: alla luce dei fari le irregolarità risaltano chiare. Conosco tutte le buche di tutte le piste su cui ho corso: per queste cose ho una memoria speciale, della mente e degli occhi ». Un test facile Conosce la pista di Monza meglio di qualunque altra, e quello di oggi è un test facile: si tratta soltanto di stabilire quali siano i pneumatici migliori da adottare per una nuova motocicletta MV 750. Un compito da collaudatore più che da campione, una cortesia resa alla società che lo tiene sotto contratto, per 50 milioni l'anno, un lavoretto da niente: « Ma non si sa mai. Tanti ci sono rimasti stupidamente, durante prove senza rischio. Per troppa prudenza, invece, non si muore ». Nel box affollato nessuno fa caso ai discorsi di morte. Un paio di fotografi si affannano a trattenere Jackie Ickx, trascinato fin qui per qualche pasticcio pubblicitario con il campione, e impaziente di andarsene. Jl.direttore sportivo Arturo Magni è impermalito perché il campione, sempre ^ritardatario, stavolta l'ha fatto aspettare addirittura tre ore: «Un altro minuto e non mi trovava più », proclama vibrando di rancoroso amore paterno, non sperando di essere creduto. I genitori del campione sono rimasti nella casa di Lovere, addolorati e offesi: avevano invitato tutti i parenti a festeggiarlo in un gran pranzo familiare, e lui li ha mortificati andandosene senza neppure salutarli. Gli amici d'infanzia del campione, possessivi e frustrati, lo hanno seguito, ma non riescono a perdo- narlo: avevano :oKaanizzatAtal'paese una così celebrativa e lui ha sciupato tutto, arrivando alle undici di sera anziché alle otto, restando appena mezz'ora. La donna del campione, bionda e nervosa, bella e dura, calzoni da guerri- Ghiera e canottiera mimetizzata, sbadiglia con violenza ostentata: ha caldo, si annoia, vuol andare al mare. « Tutti scontenti », commenta Agostini, per niente turbato. « Arrivo a un risultato unico, conquisto il mio decimo titolo mondiale, e tutti ce l'hanno con me. Non riesco mai a rendere felici quelli che mi vogliono bene: ciascuno mi vorrebbe in esclusiva, tutti chiedono e pretendono tempo, attenzione, affetto, amore. Ma io non posso, non ce la faccio. Devo pensare ad altro ». Alle gare? « Sto già pensando alla prossima. Vincere, per me, è una questione di testa. Penso molto, rifletto continuamente: una specie di ossessione. Penso alla pista, penso a come comportarmi, al modo in cui prendere una certa curva, a come realizzare un arrivo in volata, al cambio, al tipo di rapporti che posso montare, agli imprevisti che mi si possono jj!«sentare. Poi, all'ini- jMS'de\la, gara, smetto total mente di pensare: da quel momento correre diventa un fatto fisico. Ma il cervello è pronto ad ogni evenienza ». Anche alla peggiore? « Il pensiero della morte per me è abbastanza normale: mi sono abituato a non averne paura. Avere paura non serve. Servono la prudenza, la concentrazione. Ma al momento in cui cadi ti resta soltanto la fortuna. Puoi cadere sei volte, come è capitato a me in dieci anni, e cavartela con qualche contusione, la frattura di un dito del piede, dodici punti al naso- e alle mani. Puoi cadere una volta, e morire sul colpo: è successo a tariti. Fortuna o sfortuna, tutto qui ». . Fortuna ne ha, dice, anche senza tentare di propiziarsela: « Sono più o meno religioso come tutti, ma non raccomando mai l'anima. Invocare Dio quando ne ho bisogno mi sembrerebbe una indiscrezione, una maleducazione, un modo di approfittarsi: il segno della croce potrò eventualmente farmelo prima di andare a letto, mai prima di una gara ». Nessun feticcio Non è neppure superstizioso: « Preferisco non affidarmi alle medagliette, alle corna, ai feticci, a persone portafortuna; se per caso mi venissero a mancare, avrei paura; la superstizione è una debolezza ». I suoi rimedi scaramantici sono solo due, parlare sempre della morte, mai dell'avvenire: «Il futuro non mi interessa. Da un anno all'altro tutto può cambiare, puoi sentirti improvvisamente vecchio, puoi capire che non ce la fai più. Per gente come me, programmi e progetti sono inutili ». Ragionevole, prudente, calcolatore, egocentrico, Agostini appartiene, come Rivera o Merckx, alla razzadegli eroi sportivi senza enfasi, dei campioni industrializzati. Giovanotti bravissimi nel loro mestiere, nati in famiglie piccolo borghesi e quindi ignari delle rabbie o delle esultanze di chi è stato povero, spietati con gli avversari, attenti alle pubbliche relazioni. Niente affatto pittoreschi o eccentrici, anzi conformisti sino alla piattezza, in tutto simili ai propri ammiratori: con la differenza che loro sono celebri e ricchi, e gli ammiratori no. Gli ammiratori tendono foglietti e penne biro attraverso la grata di un cancello, lo invocano per nome, tentano di richiamare l'attenzione; una ragazza quasi nuda gli fa segni tremendi, avrà sedici anni se è molto. Il campione sorride, sventola la mano, ogni tanto scarabocchia un autografo in calligrafia piccolissima, indecifrabile: « Se non ci fossero loro, io non sarei Agostini l'idolo delle folle », concede indulgente, «e poi sono loro quelli che portano soldi ai circuiti». Le sue riuscite Guadagna un milione, un milione e mezzo per ogni corsa. I soldi gli piacciono: « Non dò niente per niente, nel mio vocabolario non esiste la parola gratis. Dato che gli altri guadagnano sul mio nome, avrò ben diritto alla mia parte». Le scritte che spiccano sulla tuta gli fruttano tre milioni; aver adottato uno speciale modello di casco integrale protettivo gli ha fruttato un milione e mezzo; per far pubblicità a una benzina prende quaranta milioni l'anno. « Sono un ragazzo come tutti, un ragazzo normale ». I suoi gusti, spiega illustrando se stesso con ingenuo narcisismo, sono quelli di tanti trentenni ambiziosi. L'automobile veloce (ha una « Dino 2400 » coupé beige); l'attico (ne ha comperato uno a Bergamo per viverci con la sua amica); il motoscafo (possiede un entrobordo, 180 cavalli, 4 milioni); i beni immobili (è in costruzione un suo condominio di 15 appartamenti); ì commerci fiorenti ' (è proprietario di una torbiera, e « Per i vostri giardini, la torba di Agostini », dice lo slogan impresso sui sacchi insieme alla sua immagine in corsa). La sola mania dei giovanotti contemporanei che non condivida è quella per la motocicletta. La capisce benissimo, la spiega con acume: « E' naturale che piaccia ai ragazzi più dell'automobile. L'automobile ti porta, mentre sei tu a portare la moto. L'automobile ti rende passivo.. La moto ti dà la sensazione di dominare la macchina, di possederla: insomma di essere attivo, di non subire, di comandare ». Ma per lui è diverso: « Per me è uno strumento di lavoro, una parte provvisoria del mio corpo. Ha mai conosciuto un falegname che amasse il martello, o un atleta che avesse passione per le proprie gambe? ». Delle MV con cui corre non si occupa mai: « I meccanici ci sono apposta, e quelli della mia équipe sono bravissimi, fidati ». Alla motocicletta (che chiama « la moto », oppure, più familiarmente, «la cavalla») si avvicina al momento del « via »: come il grande chirurgo che interviene soltanto quando gli assistenti hanno preparato un corpo a ricevere la salvezza dalla sua maestrìa. Di motociclette discute continuamente: « Ma per forza, malvolentieri. Pre| ferirei parlare d'altro. Nel- l'ascoltarmi raccontare per la trentesima volta le stesse gare, mi succede di provare una noia tale che mi strozzerei per non sentirmi più ». Preferisce, per esempio, parlare di moda: « Adoro andare per negozi, guardare le vetrine, comprare tutte le cose nuove ». I vestiti però glieli fa ancora Rabolliti, il suo sarto di Bergamo; e un calzolaio di Bergamo gli fa su misura le scarpe dai tacchi troppo alti: «Forse due, tre centimetri più del normale; non rialzi veri e propri, insomma ». « Mino non è basso », interviene in difesa la sua amica Lucia, « ha solo la gamba corta rispetto al torso, che è lungo. E' bello lo stesso ». Il campione si schermisce: « Lo sai che non mi piace sentirmi dire che sono bello ». Ma: « Essere brutto mi dispiacerebbe da morire; penso che la bellezza abbia influito senz'altro sulla mia fortuna presso il pubblico». Anche presso le donne, naturalmente. Piace alle donne La sua amica, che ha lasciato un marito e due figli per seguirlo, dice che le donne gli piacciono molto, che alle donne piace molto, che « tutte gli si buttano addosso, sa come sono queste ragazze d'oggi »; del resto « se 10 non ci sono e se le ragazze sono belle, sarebbe uno stupido a perdere le occasioni ». Lui è ancora più brutale: « Le donne esistono, quindi servono a qualche cosa, no? Non posso dire che per me siano proprio le ultime pezze da piedi ». Ma neppure sono molto importanti: come non sono importanti i divertimenti, il bere, il mangiare, il ballare. Né conta molto il cinema: « Quei tre film che ho girato sono stati una vacanza. Li ho fatti così, senza impegno, per i soldi che mi davano. Pare 'che quest'inverno vogliano farmi interpretare un film più serio, ma non sono sicuro di poter diventare un Burton o un Mastroianni: e allora a cosa serve? Non vale la pena di essere bravo al cinquanta per cento ». Dalla tribuna soprastante 11 box arrivano gli applausi di ragazzi accaldati ed eccitati, arrivano le loro grida: « Lasciala lì la moto, Giacomo! Piantala! Ferrari, Ferrari! ». Si fa presto a dire, commenta lui: « Nelle moto sono il primo al mondo, ma chi mi assicura che riuscirei a essere il primo anche in automobile? ». E' proprio così importante, essere il primo? Finalmente Agostini smette di sorridere, dal suo bel viso di manichino aggraziato si cancella finalmente quel sorriso propiziatorio che, come un lebbroso la sua campanella, si porta dietro sempre e dovunque. « Essere il primo è l'unica cosa che conti nella vita » sentenzia, finalmente con un guizzo di durezza. Lietta Tornabuoni Giacomo Agostini in corsa: « Non vale la pena di essere bravo al cinquanta per cento » (Foto Team)

Luoghi citati: Bergamo, Lovere, Monza