La fantasia censurata

La fantasia censurata La fantasia censurata La mostra sui veti staliniani all'arte post-rivoluzionaria Doveva essere una torre di ferro e vetro, alta quaranta metri, uno scheletro a spirale dentro cui tre edifici, situati rimo sulla cima dell'altro, ruotando suggerivano l'immagine e realizzavano la metafora di una società dinamica, in perpetuo movimento, da cui fosse espunta qualsiasi sclerosi e impossibilità pratica. Questo il progetto che Vladimir Tatlin, scultore sovietico, disegnò tra il 1919 e il 1920 per un monumento alla Terza Internazionale. Un progetto che, seppure è rimasto sulla carta, è considerato un caposaldo dell'architettura contemporanea: un'idea indispensabile per capire gli sviluppi ulteriori e le arrischiate fantasie, trascinate al di là dei limiti del possibile, di cui il « design » e la scienza delle costruzioni voracemente si nutrono. Quella divinazione di Tatlin non è la sola rimasta su carta: tantissime altre sono rimaste sul piano dell'utopia, nella storia dell'architettura sovietica di quegli anni. Sono progetti che nel futuro il regime avrebbe dovuto costruire e invece mai costruì (e certo non per difficoltà tecniche). Ne fa fede una mostra documentaria, organizzata dall'« Arts Council », che l'ente manifestazioni artistiche di Bologna è riuscito a cogliere al volo mentre viaggiava da Londra a New York, costringendola ad una sosta, sia pure breve, nelle sale del museo civico. Titolo della rassegna è « Art in Revolution », e vuol dire che viene esibito il contributo che le arti, intese in una globalità programmaticamente interattiva, vollero dare, negli anni immediatamente successivi all'Ottobre 1917, all'evoluzione in senso progressista della società che nasceva dalle rovine del feudalesimo zarista. Non c'è pittura in questa mostra; vi sono i contributi che pittori come Chagall, Kandinskij e più di tutti Malevic dettero alla rivoluzione (bozzetti e manifesti); vi sono i posters che Majakovskij dettò; vi sono le foto di scena dei grandi spettacoli che il teatro sovietico allestì per merito di Mejerchol'cl, della Stepanova, di Tairov o Vachtangov; vi sono i documenti del fulminante cinema di quegli anni, il cinema di Dziga Vertov, di Ejsenstein, di Pudovkin; e infine le invenzioni architettoniche e gli oggetti appunto di Tatlin, dei fratelli Vesnin, di Leonidov, di Lissitskij. L'impressione che suscitano questi progetti è enorme, oltre che per quel ch'essi sono, per il significato che c'è in quel loro essere rimasti ineseguiti. Il progetto dell'Istituto Lenin di Leonidov (1927), ad esempio. L'istituto doveva sorgere sulle colline di Mosca: un'alta biblioteca di cristallo, leggera ed elegante come una stele, un po' simile (probabilmente) a quel che oggi è a New York il grattacielo Seagram. Al fianr. co di questa stele Leonidov, appena venticinquenne a quel tempo, aveva previsto un auditorium di quarantamila posti a sedere, anch'esso di cristallo, ma sollevato da terra, in forma di sfera trattenuta in basso da un lieve traliccio d'acciaio. E fili d'acciaio ovunque, che legassero i cristalli al suolo, quasi questi ultimi stessero per sparire verso l'alto del cielo. Medesima idea nell'uso del vetro mostra il progetto dei fratelli Vesnin per la sede della Frauda di Leningrado: una struttura trasparente e svettante, ardita e simbolicamente ricettiva. L'interno degli edifici è previsto esser visibile dall'esterno in un'ideale compenetrazione speculare: l'ambiente circostante che invade i luoghi di lavoro tradizionalmente situati al chiuso più impenetrabile, e questi ultimi che, invece, non possono sussistere se non in una perpetua disponibilità visiva nei confronti della natura... Era l'idea che l'arte e la cultura dovessero scendere in strada, venire utilizzate quali inequivocabili aiuti per la collettività alla costruzione d'un mondo migliore. Gli imperativi di Rimbaud e di Lautréamont pareva dovessero realizzarsi, e non soltanto per il gusto festevole e l'arditezza immaginativa di qmdevpqpddeg . quelle innovazioni, e per il modo in cui le parole d'ordine del regime subivano la emulsione espressiva che sapevano dare ad esse i poeti, ma perché quella festevolezza e quell'estro erano ricambiati appassionatamente e con fervore dalla gente della strada. La Russia era certamente piagata dalla furia degli avvenimenti e dalle difficoltà economiche: mostrava però una gran voglia di vivere. Ma la novità di cui quegli artisti, poeti, pittori, architetti, registi parlavano, era nata per spontaneità meramente rivoluzionaria? Era una novità che affondava i propri tramiti negli anni dell'« Art nouveau », del « Liberty ». In Occidente, il parallelo di quanto avveni- . va in Urss si chiamava « Art ' Déco », perché era il « decorati] » a farla da padrone, a mutare in maniera spregiudicata l'« environnement » umano. In Urss c'era la rivoluzione, e c'era un abile regista della politica culturale che si chiamava Lunaciarskij, intellettuale anche lui e uomo di teatro: aveva raccolto intorno al credo rivoluzionario, offrendo uno spazio imprevedibile di azione, i numerosi ingegni dell'epoca, che erano veramente tanti, tutti con qualità realmente geniali, tutti con un gran desiderio di far veramente del nuovo. Il nuovo, anche nel suo critico legame col passato, fu ideato, previsto, talvolta realizzato. Basta guardare le fotografie di uno spettacolo di Mejerchol'd, o di Tairov: le idee innovative trasudano dai costumi, dalle coreografie, dai gesti in cui gli attori sono sorpresi. C'è un'aria di sublime gioco, persino di fiera perpetua dell'immaginazione, e una capacità di travolgente ironia nella scoperta di mezzi ed espedienti artistici che solo in quella situazione eccezionale sembravano trovare la loro ragion d'essere. Chi ha visto L'uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov sa cosa voglio dire. Il cinema, in quelle immagini di vita reale travolte da un ritmo di fiaba, diventava una specie di scommessa che il regista intrecciava con l'assurdo: e la vinceva, perché anche quello mostrava d'essere un modo, forse il più arrischiato, di credere nella forza spirituale dell'uomo. Poi tutto finì, naufragò. Rimasero le fotografie di quegli spettacoli e le bobine di quei film. Seppelliti, negli scantinati dell'Hermitage di Leningrado, giacquero, gli uni sugli altri, centinaia di quadri: tele che la Rivoluzione aveva partorito e che la burocrazia condannò senza appello. La torre di Tatlin non alzò la sua spirale al ciclo; le nuvole e le colline di Mosca non andarono a specchiarsi nei fantasmagorici cristalli dell'Istituto Lenin immaginato dal giovane Leonidov. L'arte pagò un gravissimo scotto alle illusioni della politica: o era la politica che in Urss andava a inabissarsi, senza più futuro, nella palude mobile della ragion di Stato? E' vero che l'utopia rivelava ancora una volta il suo volto di fata morgana: su una «città del sole» che pareva finalmente concretizzata proprio per il concorso dei filosofi e dei poeti, si oscurò ogni luce. Gli uomini credono talvolta che la storia possa realizzare il massimo di quel che l'immaginazione suggerisce: ma un tale sogno risulta sempre frustrato, annientato da quanto viene eufemisticamente detto la ragione della vita. Fu il massimo della sventura, per quei russi di genio, che la ragione della vita dovesse configurarsi per loro nel Leviatano della dittatura stalinista. Enzo Siciliano