Perché Vicari assolto

Perché Vicari assolto Depositata la sentenza Perché Vicari assolto Erano legittime le sue riserve sul sindaco di Palermo, Ciancimino (Dal nostro corrispondente) Palermo, 5 luglio. I giudici della terza sezione del tribunale penale di Palermo (presidente Michele Agrifoglio; giudici: Vincenzo Palmegiano c Stefano Migliore) hanno depositato in cancelleria la motivazione della sentenza con la quale, il 31 maggio, hanno assolto il capo della polizia, Angelo Vicari, dichiarandolo non punibile. Il prefetto Vicari era stato querelato dall'ex sindaco di Palermo, il democristiano Vito Ciancimino,, ritenutosi offeso da una frase che l'alto funzionàrio aveva detto ad alcuni giornalisti. «Condivido le riserve espresse dalla Commissione parlamentare antimafia sull'elezione di Vito Ciancimino a sindaco di Palermo », aveva detto Vicari, il 29 ottobre scorso, quando incontrò i giornalisti nella prefettura di Palermo durante le indagini sulla misteriosa scomparsa di Mauro De Mauro. L'esponente d.c. ritenne d'essere stato diffamato e sporse querela per diffamazione aggravata contro Vicari. Non querelò i giornali — specificò 10 stesso Ciancimino — perché essi, tutto sommato, avevano esercitato il diritto d'informazione. Ora i giudici hanno spiegato perché ritengono che anche il dott. Vicari non abbia commesso reato, ma abbia esercitato invece 11 libero diritto di critica in base all'art. 21 della Costituzione e all'art. 51 del codice penale. Ciancimino aveva affermato che nessuna riserva, in realtà, era stata espressa dalla Commissione antimafia, ma soltanto da alcuni suoi componenti, « che sono, aggiunse, miei nemici politici, comunisti che mi hanno sempre attaccato in tutti i modi »; nella motivazione della sentenza appare invece il contrario. Si dice esplicitamente che « può ben dirsi che le riserve vi furono e non di sìngoli componenti, ma della Commissione, poiché a questa, e non ai singoli componenti che, intervenendo nella discussione, si soffermarono sull'elezione del Ciancimino ed offrirono alla Commissione stessa il loro convincimento e il loro apprezzamento sul fatto in questione, risale la decisione, di cui si è più volte detto, dalla quale discende che l'elezione del Ciancimino fu apprezzata come un fatto che aveva potuto determinare certa situazione nel comune di Palermo, a cui si doveva connettere un'indagine ai fini del rapporto tra mafia, potere politico e pubblica amministrazione, siccome si c già descritto ». Il tribunale ha, quindi, rilevato che dal comunicatostampa diffuso dalla Commissione antimafia, il 14 ottobre, due giorni dopo la controversa elezione di Ciancimino a primo cittadino del capoluogo siciliano, si evinceva che « l'intervento dei parlamentari nella discussione aperta sulla scomparsa del De Mauro e sui connessi aspetti della presenza mafiosa in Sicilia si estese all'elezione del Ciancimino a sindaco di Palermo », e che « dall'intervento in questione emergeva il quadro inquietante dell'ambiente, evidenziato nel comunicato ». Un altro « passo » è d'una certa rilevanza: vi si afferma, tra l'altro, che il prefetto Vicari, pronunciando quella frase, « null'altro fece se non esprimere il proprio pensiero su un episodio che aveva suscitato l'interesse della stampa, che riguardava un avvenimento molto importante della vita comunale di mia grande città, sulla quale, innegabilmente, cadeva buona purte dell'inchiesta per il fenomeno della mafia, che concerneva, infine, un uomo politico di larga notorietà, sia per le cariche ricoperte, sia quale personaggio di primissimo piano nel partito cui è iscritto ». A questa considerazione i giudici ne fanno seguire un'altra. Eccola: « E proprio con riguardo a questo ultimo particolare, è stato infatti scritto nella motivazione, non ignora il collegio che autorevole dottrina ha sostentilo non infondatamente che l'uomo politico per il solo fatto dell'acccttazione del mandato, sì svolga isso in campo amministrativo o a livello maggiore, deve accettare l'apprezzamento negativo della sua attività ». « Purché, puntualizzano ad ogni modo i giudici, non siano superati determinati limiti oltre i quali l'apprezzamento può sfociare in astiosa, pervicace, gratuita o maligna denigrazione, di fronte alla quale sarebbe inutile invocare il diritto di cui all'articolo 21 della Costituzione ». Antonio Ravidà

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