Epitteto, schiavo sublime di Carlo Carena
Epitteto, schiavo sublime Un maestro di spiriti solitari e ambiziosi Epitteto, schiavo sublime Epitteto: Mursia, « Manuale », pag. 110, L. Ed. 600. Epitteto era uno schiavo asiatico deformato dall'artrite e zoppo: un giorno che il suo padrone, ex-schiavo anche lui, prese a bastonarlo, gli disse: «Attento che mi stai spezzando una gamba»; quando così avvenne, commentò: « Te l'avevo detto! », e nient'altro. Lo stoicismo era già dentro di lui, era la sua seconda natura di filosofo. Quando prese a insegnare, i filosofi furono espulsi da Roma con un decreto dell'imperatore Domiziano, nel 93. Allora si ritirò a Nicopoli, in Epiro, dove aprì una scuola frequentata da bella gente. Non scrisse nulla; un suo uditore, storico e magistrato, Amano, ne annotò in greco le conversazioni e raccolse in un brevissimo manuale le massime in cui si condensava l'insegnamento del maestro. Così si sono trasmesse a noi le parole e la fama di quest'uomo più curioso che straordinario, che ha conquistato l'ammirazione di molti e grandi uomini in tutti i secoli, ma forse non ha mai avuto un vero discepolo. Epitteto è, con Marc'Aurelio (uno schiavo e un imperatore), l'ultimo degli stoici. In lui il grande sistema filosofico, con la sua metafìsica e la sua cosmologia, si riduce all'essenza di un insegnamento morale, a una ricetta di vita. Si adatta alle esigenze di tempi grigi, vuol rispondere ai bisogni dei cittadini comuni, impegnati e presi dalle contraddizioni, dalle avversità di un destino durissimo. Ma la risposta è, per la sua impossibile applicazione, delle più assurde, o delle meno soddisfacenti. Epitteto punta sulle doti più alte e sugli esercizi più difficili per l'uomo: sulla ragione, sullo svilimento delle emozioni, sull'annullamento dei bisogni. Batte e ribatte sull'ideale della libertà interiore, sull'autonomia dai falsi miraggi, dai prodotti artificiali della civiltà, dalle sciocchezze a cui si attribuiscono valori essenziali. Perciò ha conquistato, forse, qualche spirito solitario e ambizioso; per il resto è rimasto un esemplare, un termine di confronto proverbiale, uno di quei quattro o cinque moralisti Ietti da sempre, con le loro ondate di pessimismo che si direbbe inevitabile: ma solo per se¬ guire, nella serie per altro gradevolissima di queste massime, la costruzione d'un tipo umano che, per non soffrire, rinuncia a vivere. Eppure il Leopardi, nella prefazione alla sua versione del Manuale, viene sostenendo, più per paradosso, si direbbe all'inizio, che per sicura convinzione, che proprio della debolezza, e non della forza dell'uomo tenne conto il filosofo, e che ai deboli, non ai forti d'animo egli si indirizza, « e però agli uomini moderni ancora più che agli antichi ». Era l'esperienza amara del poeta che gli faceva capovolgere a questo modo un'etica impossibile, di cui lo colpì l'invito a non contrastare il destino umano, a non mirare a grandi cose agli occhi del mondo, a cedere e rassegnarsi. «Io — scrive il Leopardi — che dopo molti travagli dell'animo e molte angosce, ridotto quasi mio malgrado a praticare per abito il predetto insegnamento, ho riportato di così fatta pratica e tuttavia riporto una utilità incredibile, desidero e prego caldamente a tutti quelli che leggeranno queste carte, la facoltà di porlo medesimamente ad esecuzione ». L'editore Mursia, ripubblicando ora nella sua collana Universale la classica tradu zione leopardiana, introdotta da alcune pagine assai piane ed esatte di Guido De Ruggiero, insieme ci propone un gioco intelligente, col farla seguire da quella in latino di Angelo Poliziano, pubblicata la prima volta nel 1497 e praticamente introvabile. Ci si convince facilmente, alla vista di un latino così limpido e perfetto, semplice ed elegantissimo, che a tentare l'umanista quattrocentesco fu la sfida linguistica. Carlo Carena 4
Persone citate: Amano, Angelo Poliziano, Guido De Ruggiero, Ietti
Luoghi citati: Roma
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