Il torinese don Merinas spiega perché si schierò con l'Isolotto di Gigi Ghirotti

Il torinese don Merinas spiega perché si schierò con l'Isolotto La comunità ribelle sotto processo a Firenze Il torinese don Merinas spiega perché si schierò con l'Isolotto E' imputato di istigazione a delinquere con altri 3 sacerdoti e 5 laici - Accuse alla Chiesa di essere dalla parte dei potenti - Don Ricciarelli: «Colpire l'Isolotto significa colpire un popolo che ha acquistato la sua coscienza» - Il viaggio a Roma di don Mazzi per parlare con il Papa (Dal nostro inviato speciale) Firenze, 23 giugno. Hanno parlato due sacerdoti, imputati, quest'oggi, al processo per istigazione a delinquere che si celebra davanti al tribunale di Firenze; e altri due imputati laici, appartenenti alla comunità dell'Isolotto, che ieri avevano incominciato la loro autodifesa, oggi l'hanno completata. Un po' alla volta, un personaggio dopo l'altro, davanti ai giudici prende consistenza l'Isolotto. Questo corpuscolo inatteso e ribelle della Chiesa cattolica italiana, si rivela per quel che è, per quel che è stato nella vita della diocesi, e anche negli echi che ha suscitato, nelle speranze che ha acceso in una parte del clero e del laicato cattolico, I fatti a Torino Un sacerdote torinese, don Vittorino Merinas, che nella sua città ha avviato un'esperienza comunitaria, in parte simile a quella dell'Isolotto, ha detto: « Ero sacerdote, salesiano. Godevo d'una buona situazione, sotto ogni aspetto. Il benessere non mi mancava, non mi mancavano le possibilità di studiare, di insegnare, di predicare nelle chiese più belle di Torino, quelle di piazza San Carlo, frequentate dalle migliori famiglie della città. Quando i miei allievi mi vedevano, si irrigidivano davanti a me, nell'atteggiamento dell'ossequio. Eppure, leggendo il Vangelo, mi sentivo a disagio. Come potevo parlare dei poveri, e tenermene lontano, non far nulla di concreto per loro? Sono stato fortunato: alcuni dei miei giovani, usciti dall'Azione cattolica, si diedero a lavorare al Casermone di via Verdi: 130 famiglie di immigrati meridionali, concentrate in locali e costrette a vivere in condizioni che non mi dilungo a descrivere. I miei giovani mi costrinsero ad avvicinarmi a questa gente, ad entrare nel Casermone ». Don Merinas, nel rievocate, appare turbato: alto e ossuto, uno sguardo pensoso dietro gli spessi occhiali cerchiati di nero: il suo eloquio è faticoso, tormentato nell'attacco dei periodi. Ma via via che si accalora, la sua prosa scandisce con vivida chiarezza le fasi di un dramma autenticamente sofferto. « L'esperienza del Casermone — prosegue don Merinas — mi spinse a non tergiversare oltre, specialmente quando assistetti alla tragedia di due genitori meridionali, che, al ritorno dal lavoro, trovarono nella loro stanzuccia il cadavere bruciato del loro bambino, di pochi mesi, che avevano lasciato, senza loro col pa, incustodito ». Don Merinas, davanti a quel corpicino bruciato, decise di abbandonare i salesiani e il patrimo nio di sicurezza, professionale, economico e dottrinale che essi gli assicuravano per la vita; e si dedicò al servizio dei poveri « in forme reali non velleitarie », insieme col gruppo dei suoi giovani amici. II vero cristiano Stabilirono come loro punto d'incontro un vecchio deposito al Vandal:no. « Non è facile, signor presidente, le assicuro che non è facile mettersi cosi, alla ricerca dell'autenticità cristiana. Non è facile. Tant'è vero che mi ritrovo qui come imputato ». Una imputazione severa, appesantita dall'aggravante dell'» associazione per delinquere ». «Quando mia madre lesse sui giornali queste accuse, esclamò: " No, non è possibile die mio figlio sia colpevole: non lia mai rubato né ucciso; com'è possibile che abbia istigato qualcuno a delinquere? ". In tutta sincerità, non ritengo dì aver mancato al mio compito di buon prete e di buon credente, cosa che mi interessa anche di più ». Don Merinas aveva sentito parlare dell'Isolotto, ma non conosceva personalmente don Mazzi e trovandosi, per altri motivi, a Firenze proprio la vigilia della famosa Messa di mons. Alba, ebbe l'idea d'andarlo a trovare. E si trovò, la sera del 4 gennaio 1969, nell'occhio del tifone, per dir così: cioè dentro la chiesa fiorentina, nel momento in cui più violente ribollivano le ire per l'annuncio che l'indomani mons. Alba, per incarico del cardinale arcivescovo, vi avrebbe celebrato la sua Messa, quella che gli imputati definiscono « una finta Messa, una non-Messa ». Perché una « non-Messa »? Perché mancante di un requisito fondamentale: la « comunione » tra i fedeli e il celebrante, tra l'Isolotto e il capo della diocesi, e il suo emissario. Su questo punto, la « comunione », cioè la riconciliazione dei fedeli eoo la gerarchia, don Merinas era ed è profondamente in disac¬ ccopcampdmseqin1nacrzainl'dcmi gnsfizdtosdluEgzcarzl'qzctdlafMinvptnidscnentèldCa l . è e a cordo con il pensiero della comunità fiorentina. « Ero persino irritato che si cercasse, egli dice, questa " comunione " con una controparte che non la voleva e che, di fatto, intendeva questa comunione come una pura e semplice sottomissione. E quando uno della comunità, in quella chiesa affollata di 1500-2000 persone, mi riconobbe e mi esortò a dire anch'io la mia parola al microfono, mi sentii imbarazzato. Mi si voleva far parlare in quanto prete, mentre quell'assemblea mi dava la grande gioia dj vedere un popolo composto e maturo, una comunità capace di dibattere i suoi problemi, senza bisogno della presenza permanente del prete che suggerisce, che stimola e che, in definitiva, fornisce lui le soluzioni ». Parlò, tra gli altri oratori, don Tozzi, un sacerdote notoriamente contrario alle posizioni dell'Isolotto. Subito dopo, il microfono passò a lui, l'imputato don Merinas. Egli espresse, racconta ai giudici, la propria ammirazione per quell'assemblea che, senza proteste, aveva ascoltato un oratore di parere contrario. Nella trascrizione magnetofonica di quell'assemblea, base dell'accusa, questo tributo di « ammirazione » di don Merinas è viceversa stortamente attribuito ai propositi, manifestaci da altri oratori, di impedire la Messa di don Alba. Un altro prete Ben altro, narra l'imputato, fu il discorso tenuto da don Merinas: egli disse che era inutile cercare l'unità con il vescovo, « perché Cristo è portatore di divisioni autentiche, basate sull'impegno netto e radicale di lottare in favore dell'uomo ». Spiega don Merinas che le divisioni, sempre fomentate e provocate dalla Chiesa cattolica nella sua storia, tra cattolici e protestanti, tra credenti e non credenti, tra buoni e cattivi, sono fittizie. Realistica è invece, secondo l'imputato, la divisione tra il popolo e suoi oppressori: su questa divisione la Chiesa tace e Cristo, invece, pose il suo accento più vigoroso. Qui si è interrotta, per l'ora tarda, l'esposizione del sacerdote torinese Un altro imputato, don Gianni Ricciarelli, si era fatto, poco prima, redarguire dal presidente e dal pubblico ministero per essersi spinto a criticare l'istruttoria e a diffidare preventivamente delle decisioni del tribunale in merito all'ascolto dei testi moni invocati dalla difesa: « Se la magistratura continuerà a rifiutare la testimonianza di persone necessarie all'accertamento della verità, renderà un cattivo servizio al popolo e un buon servizio ad una certa classe ». « Gli imputati. — interviene il presidente Accinni — possono dire quel che credono, a loro discolpa, ma non debbono giudicare i giudici prima che essi abbiano giudicato ». Nel presentarsi ai giudici, don Ricciarelli, un giovane alto e biondo, vestito sportivamente (giacca a vento, pantaloni di velluto, sandali ai piedi), aveva così esordito: « Sono prete della diocesi fiorentina e faccio l'operaio nelle fonderie del Nuovo Pignone. Sono entrato adulto in seminario. Subito, fin dai primi mesi, si tentò di espellermi: arrivavano sul mio conto lettere anonime, che mi segnalavano come sinistrorso, come comunista. In seminario mi ponevano di continuo davani all' " aut aut ". Mai mi si volle rivelare la fonte di queste delazioni. E questo è il clima in cui è maturato il presente processo e, ancor prima, tutta una serie di persecuzioni che hanno colpito a diocesi fiorentina ». Don Ricciarelli nomina, tra le vit¬ Urne di queste « persecuzio ni », anche lo scomparso don Lorenzo Milani. In conclusio ne. il cardinale Florit si era dato per programma, secondo 'imputato, di « sterilizzare » a diocesi da ogni elemento che avesse fatto un discorso d'apertura alle esigenze reali del popolo, e poiché l'Isolotto stava compiendo un'esperienza basata proprio sulla ricerca di una maggiore fedeltà al Vangelo, anche l'Isolotto cadde sotto i rigori della medesima persecuzione. Altri spiragli erano venuti, in apertura di seduta, a illuminare i giudici sulla portata della dissidenza aperta dall'Isolotto. Dice l'imputato Carlo Consigli, per la seconda volta davanti ai giudici dopo la lunga introduzione di ieri: « A seguito dei fatti accaduti all'Isolotto, il Papa inviò una lettera a don Mazzi, nella quale lo pregava di fare in modo che tutto si appianasse. E' chiaro che rivolgendosi a don Mazzi e non M111n 1 !111111111111MIMIM11111M11111111M111111UM1 ata comunità, il Papa eludeva ancora una volta il popolo. Allora comunitariamente decidemmo di andarlo a trovare ». Spediscono un telegramma a Paolo VI preannunciandogli la loro visita; e l'indomani, senza aspettare risposta, si mettono in viaggio. Arrivano a Roma, in Vaticano. Il Papa, quel giorno, è indaffarato, perché si prepara al viaggio che lo porterà a Taranto, a celebrare la Messa di Natale tra gli operai dell'Italsider. Nella sua anticamera, nicchiano al vedere arrivare una delegazione completa dell'Isolotto: si aspettavano, tutt'al più, soltanto il parroco, don Mazzi, ma don Mazzi insiste: da solo, spiega, non può essere ricevuto, bisogna che tutta la comunità dell'Isolotto sia ascoltata in tutta la sua rappresentanza. A ricevere questa rappresentanza il Papa manda mons. Benelli, sostituto della segreteria di Stato. Mons. Benelli spiegò a don Mazzi che avrebbe potuto essere ascoltato soltanto a una condizione: che prima si fosse incontrato, a Firenze, con il suo cardinale, mons. Florit, in segno di obbedienza. E così l'indomani (è sempre l'imputato Consigli che racconta) don Mazzi ritorna a Firenze, va a trovare il cardinale Florit. Il cardinale lo esorta ripetutamente a ritirarsi dalla parrocchia, e gli spiega che quanto accade all'Isolotto è tutta colpa di « un gruppetto di persone ». « Evi- | dentemenie ' Scardinale" non aveva capito che all'Isolotto non esistono capipopolo, ma soltanto il popolo ». L'inviato di Florit All'Isolotto, sta intanto per arrivare mons. Alba, inviato dal cardinale a dir messa. Che accoglienze furono riservate al prelato, lo spiega un altro dei nove imputati, già ieri apparso al pretorio, Daniele Protti, organizzatore dei boy-scouts della comunità dell'Isolotto. li Protti narra di avere preso la parola al microfono, quella sera (4 gennaio 1969), per suggerire che la comunità si trovasse tutta compatta, l'indomani, nella chiesa, « per scoraggiare qualsiasi provocazione ». « Intendevamo fare uso del nostro diritto di manifestare in pubblico le nostre idee », chiarisce l'imputato. Gigi Ghirotti Don Merinas