Il prezzo degli schiavi

Il prezzo degli schiavi Come finì la " tratta,, Il prezzo degli schiavi Eric Williams: « Capitalismo e schiavitù », Ed. Laterza) pag. 301, L. 2500. Vi sono argomenti che pochi sanno affrontare a mente fredda, c la storia della schiavitù è uno di questi. Chi si sente di studiare un uomo come una qualunque merce da portare al mercato? Chi si sente di ragionare su equazioni del tipo un bianco = tre neri, oppure un nero = un fucile di Birmingham? Eppure è cosi che bisogna fare se si vuol capire l'economia, ovvero l'essenza, di un fenomeno che non fu principalmente militare o politico 0 ideologico. Ed è così che fa il professor Williams, sebbene, come nativo di Trinidad ed ora primo ministro dell'ex colonia britannica, debba avere avuto la tentazione di dare ascolto al cuore di patriota più che al cervello. Il suo libro si legge col massimo piacere consentito dalla sordida materia. Impariamo che la schiavitù in America ebbe nulla in comune col razzismo. Riguardò prima gli indoamericani, poi i bianchi, e solo in una terza fase i negri. Gli indoamericani erano pochi e poco resistenti al lavoro coatto. 1 bianchi, come lamentava Franklin, erano «lo scarico nel Nuovo Mondo dei rifiuti del Vecchio Mondo », cioè avanzi di galera che sceglievano la schiavitù al posto della prigione; o meglio, sceglievano l'occasione di fuggire e tornare a ribaldeggiare. I negri africani erano tanti e a buon prezzo, si compravano appunto in cambio di un fucile o di qualche campanellino d'argento o di simile paccottiglia. La loro produttività era un terzo di quella dei bianchi, ma il prezzo un decimo o ancor meno. Il problema morale non si poneva come si pone oggi. La Chiesa approvava perché la tratta favoriva la conversione degli infedeli. E poi, come ricorda Williams, « lo sfruttamento degli schiavi nelle piantagioni non differiva sostanzialmente da quello dei contadini feudali o dalle condizioni dei poveri nelle città europee ». C'era chi sosteneva che la schiavitù in America era meglio della libertà in Africa. Durante la traversata dell'Atlantico si moriva come le mosche d'inverno, ma l'annegamento, lo scorbuto e i pirati erano vecchie conoscenze per i marinai europei, che avevano conquistato degli imperi lottandogli contro. Figuriamoci se li preoccupava il pensiero che le vittime non fossero più loro, ma dei negri. L'Inghilterra mise le sue abilità marinare al servizio della tratta, e organizzò un commercio triangolare, che funzionò a lungo. In Africa inviava manufatti, dall'Africa verso l'America spediva schiavi, e dall'America importava materie prime. Tutto funzionò finché nel 1776 venne la Dichiarazione d'Indipendenza americana e uscì la Ricchezza delle Nazioni di Adamo Smith. Gli americani del Nord si chiesero se dovevano continuare a pagare lo zucchero delle Indie occidentali a carissimo prezzo di monopolio, solo per accontentare i piantatori inglesi: la risposta fu no. Si chiesero se l'Inghilterra doveva avere anche il monopolio delle navi e dei manufatti: la risposta fu di nuovo no. D'altra parte un autorevole pensatore inglese, Adamo Smith, sosteneva egli stesso che il monopolio era un male, e che la libera concorrenza era il miglior mezzo per aumentare la ricchezza delle nazioni. 11 vecchio sistema mercantilistico e colonialistico era contestato da ogni parte. Finì col cadere, e trascinò nella caduta la schiavitù e la tratta. In realtà, la vera rivoluzione non la fecero i contestatori, ma la macchina. Il lavoro meccanizzato, la forza del vapore al posto della forza dei muscoli, cambiò le regole del gioco. Gli schiavisti di Liverpool si accorsero che conveniva trasformarsi in industriali di Manchester. Lo zucchero, così come ogni allro alimento, doveva costare il meno possibile, perché gli operai dell'industria dovevano vivere al minimo costo. Due capitalismi si scontrarono: quello protezionistico dei piantatori e degli agrari in generale, e quello liberistico dei nuovi industriali. La battaglia fu breve, la riforma elettorale mise in minoranza i proprietari terrieri nel Parlamento inglese,' c i risultati si videro subito: 1807, divieto della tratta; 1833, divieto della schiavitù; 1846, abolizione dei dazi preferenziali sullo zucchero e sui grani. Rimasero due collegamenti mprtiglscdtalatapsol'fepIindSlofai dUlolasrGsfiaCdadGnitctLldcPgmnqqdllT tra l'industria e la schiavitù, ma a nostro parere deboli. Il primo è questo: l'industria attinse dai capitali accumulati dagli schiavisti. Williams attribuisce troppa importanza al fatto, dimenticando che egli stesso cita documenti secondo i quali la tratta era rischiosa e talvolta gestita in perdita. Il monopolio dello zucchero era lucroso, ma circoscritto. Fuori dell'area d'influsso inglese era preferito lo zucchero più a buon prezzo delle colonie francesi. Inoltre Napoleone, che entra inevitabilmente in scena quando si discute di storia tra il Settecento e l'Ottocento, lanciò lo zucchero di barbabietola per far dispetto all'Inghilterra. Il secondo collegamento c che i cotonieri inglesi si rifornivano dà materia prima negli Stati Uniti del Sud. Era il cotone dello zio Tom che contribuiva alla rivoluzione industriale inglese. Ma la Guerra Civile americana, con logica simile alla Guerra d'Indipendenza, dimostrò che la schiavitù era sconfitta dall'economia industriale anche al di là dell'Atlantico. Che il cotone dei planters sudisti non fosse indispensabile alle manifatture inglesi era evidente prima ancora che la Gran Bretagna si dichiarasse neutrale al riguardo delle lotte interne degli americani. Ripetutamente gli Stati Uniti, filofrancesi e antinglesi, avevano decretato senza successo l'embargo. L'interruzione dei traffici con l'Inghilterra si risolveva in un danno per gli americani più che per gli odiati « cugini ». Per quasi tutto l'Ottocento l'Inghilterra fu « la fabbrica del mondo », e il suo sviluppo economico fu a prova di qualunque ricatto internazionale. Per questo potè permettersi il lusso di predicare al mondo intero la libertà economica e insieme la libertà umana. Sergio Ricossa

Persone citate: Adamo Smith, Eric Williams, Sergio Ricossa, Trinidad