Tondojminacciò io mafia e non fece mai denuncia di Mario Dilio
Tondojminacciò io mafia e non fece mai denuncia II processo in assise d'appello a Lecce Tondojminacciò io mafia e non fece mai denuncia La figura del commissario di polizia, assassinato ad Agrigento, descritta dal giudice: «Era un maestro nell'arte del doppio gioco» - Aveva le prove dei delitti, ma non le consegnò - Parla un imputato, che uccise un rivale mafioso: «Io sparai a terra: la pallottola lo colpì di rimbalzo» I 1 toria e a a a eapaeà a eti (Nostro servizio particolare) Lecce, 17 giugno. L'udienza odierna del processo di appello contro i presunti responsabili dell'uccisione del commissario dottor Cataldo Tandoj e del giovane Ninni Damanti, avvenuta la sera del 30 marzo I960 in piazza Vittoria ad Agrigento, è continuata con la seconda parte della relazione del giudice a latere dottor Fortunato D'Auria, che ha descritto la figura del funzionario di polizia e l'ambiente in cui operava. Le parole del giudice riflettono quanto è detto nelle 800 pagine della sentenza del processo di primo grado svoltosi tre anni fa a Lecce per « legittima suspicione »: il commissario Tandoj emerge come maestro nella difficile arte del doppio gioco, la cui coscienza era divisa e macerata dall'esigenza di compiere il proprio dovere al servizio dello Stato e della comunità e di non provocare eccessivi fastidi all'organizzazione mafiosa a quell'epoca temibile in tutta la provincia di Agrigento. Alla base del delitto Tandoj — secondo i giudici salentini — vi è il delitto di Antonino Galvano, eletto dalla mafia a succedere al defunto avv. Cuffaro e causa prima dello scatenarsi di una feroce guerra di interessi tra gruppi opposti della delinquenza agrigentina. Tandoj mise a frutto con intelligenza le sue risorse di capo della Mobile, seppe sfruttare bene le sue conoscenze, riuscì, con le notizie e le confidenze riservate di elementi vicinissimi agli ambienti mafiosi, a riannodare le fila di una serie di fatti criminosi, individuando mandanti e esecutori. Quando era pronto per stendere la denuncia e presentarla alla magistratura, Tandoj preferì minacciare più volte gli esponenti della mafia. Poi, inspiegabilmente, chiese ed ottenne di essere trasferito ad altra sede sul continente. Si insediò nel suo nuovo ufficio a Roma ai primi del 1960 e il 30 marzo si recò ad Agrigento per prendere la moglie. E fu proprio mentre di.sera tornava a casa che quattro colpi di pistola lo freddarono in piazza VitUn quinto proiettile uccise lo studente Damanti, che casualmente passeggiava sulla stessa piazza. Le minacce di Tandoj - secondo la sentenza — non preoccupavano gli esponenti della mafia fino a quando il commissario continuava a svolgere la sua attività in Sicilia: una volta a Roma, era difficile prevedere che cosa sarebbe avvenuto. Di ani la decisione dei fratelli Luigi p Santo Librici di decretare la morte del dott. Tandoj. Questa versione dei fatti coincide con il parere espresso dal giornalista Mauro De Mauro (rapito poi dalla mafia e scomparso) che fu ascoltato a Lecce tre anni fa; egli nelle sue inchieste sulla mafia siciliana aveva ricostruito le indagini compiute dal commissario Tandoj. Dodo la relazione del dottor D'Auria è stato ascoltato l'imputato Santo Librici, condannato insieme al fratello Luigi all'ergastolo oerché mandante del delitto Tandoj e capo mafia nel triangolo del delitto, come venne definita la zona fra Raffadali Agrigento-Favara. Egli ha esordito scusandosi per la scarsa cultura e ha spiegato che a 19 anni finì in carcere rjer omicidio, compiuto — ha detto — per legittima difesa. « Io non volevo uccidere Giuseppe Ragusa — ha continuato — e portai nel cuore tanta pena. Sparai a terra e la nnilottola rimbalzando lo uccise ». Il morto era etiaino di Vin¬ ccRrtVcaVddcLdmlGdm«sCcIIIt cenzo Ragusa, comandante del corpo dei vigili campestri di Raffadali, principale collaboratore del giudice conciliatore (e segretario della de) Vincenzo Di Carlo, anch'egli condannato all'ergastolo e accusatore di Santo Librici. Vincenzo Ragusa non gli perdonò l'uccisione del cugino: di qui l'odio del (( boss » Vincenzo Di Carlo contro lui. Il secondo accusatore del Librici è Antonino Cuffaro, detto lo « Gnirri », un testimone di accusa fuggito all'estero, oggi residente in Gran Bretagna e che non depose nel processo di primo grado. Librici ha detto: « Sfortunato fui, signor presidente, in carcere conobbi Cuffaro e lo rimproverai perché faceva " la donnina ": per questo motivo mi ha odiato ». Librici ha poi ricordato il fallimento di un suo tentativo di espatrio negli Stati Uniti d'America, ha rifatto la storia della sua estradizione in Italia e del suo ritorno a Raffadali. Tentò poi di recarsi clandestinamente in Germania attraverso la Francia. Arrestato a Nizza, dopo tre mesi di carcere, tornò in Sicilia, e si occupò in qualità di cantoniere. Poi scontò altri tre mesi di reclusione per il tentativo di espatrio clandestino. La deposizione di Librici proseguirà domani. Il processo quindi subirà una pausa fino a martedì e riprenderà mercoledì 23 giugno. Mario Dilio
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