Gli "anni di galera" del Verdi giovanile

Gli "anni di galera" del Verdi giovanile «I masnadieri» all'Auditorium Gli "anni di galera" del Verdi giovanile L'opera ispirata ài primo dramma di Schiller, con un libretto ultra-melodrammatico di Andrea Maffci - L'esecuzione diretta da Mannino Un'appendice alla stagione lirica ha fornito la Rai l'altra sera, facendo eseguire, in forma d'oratorio, I Masnadieri di Giuseppe Verdi. Non più eseguita a Torino a memoria d'uomo, è un'opera di quel periodo giovanile degli «anni di galera», che oggi è al centro di animate discussioni critiche. Eseguita a Firenze nel Maggio Musicale 1963, con un'oMima messa in scena, ha trovato difensori appassionati, eppure non sembra che neanche quest'opera riesca realmente ad integrarsi nel repertorio. Non che sia un'opera sciatta e tirala via, come altre di quest'epoca verdiana. Scritta su commissione londinese, rappresentava per Verdi una grande occasione, ed egli ce la mise tutta; anzi, si preoccupò di mettersi in ghingheri, procurandosi un librettista d'eccezione in Andrea Maffei. Fu un fatale equivoco. Verdi cercava in Maffei un poeta di vaglia, che gli riducesse a libretto, con decoro letterario, il primo dramma di Schiller, tutto rimbombante di ribellione e di « Sturm und Drang ». Invece Maffei soggiacque al tipico timore dei letterati da tavolino chiamati a lavorare per il teatro: il timore di sembrare inesperti. E confezionò un libretto ultra-melodrammatico, guardando a Piave, assai più che a Schiller. Della cura posta da Verdi in quest'opera, la cui composizione fu momentaneamente interrotta per quella, studiatissima, del Macbeth, rimangono tracce soprattutto marginali: per esempio nelle introduzioni orchestrali alle arie, introduzioni per 10 più pregevoli ed insolitamente estese. Tre ampi e nobili recitativi assegnati al tenore sono pure un segno di distinzione, più che di reale riuscita. Ma dove l'opera ciurla nel manico, è nelle forme chiuse, arie e duetti. Sono tutto un continuo melodizzare innegabilmente gradevole, eppure labile, inconsistente. Un gran melodizzare, e mai una di quelle melodie stampate nel bronzo d'una reale invenzione, come ce ne sono a dozzine nell'Emani. Per tutta la sera si ha l'orecchio piacevolmente interessato, eppure si vien via senza ricordare nulla, co» me se si fosse inteso il Pelléas et Melisande. Ma poiché non c'è opera di Verdi, per debole che sia, nella quale non ci scappi l'unghiata del leone, qui c'è 11 finale terzo, anzi, buona parte del terzo atto, dove la musica impugna saldamente l'azione ed acquista una vita drammatica autentica, non fatta di reminiscenze e stilemi prefabbricati ma creata con fervida ed estemporanea immediatezza. L'opera ha avuto in Franco Mannino un direttore appassionato e convinto, sensibile ai suoi valori di edonismo melodico e di colore sensazionale. Inoltre l'orchestra ha suonato molto bene, tutta quanta e nei singoli, a cominciare dal primo violoncello nell'assolo deU'Intro duzione. Anche la compagnia vocale era in complesso soddi sfacente. 11 tenore Limarilli dà alla parte di Carlo Moor, il nobile diventato bandito, una voce chiara, sfogata, in certo senso una voce da tenore di gran classe. La usa con generosità alla «o la va o la spacca», come si addice alla disperazione del personaggio, con risultati di intonazione qualche volta preoccupanti. Mario Petri, ora baritono, e sempre saldo sulla breccia, era Francesco, il fratello malvagio; e sebbene abbia cantato tutta la sera con gli occhi inchiodati sullo spartito, pure è riuscito, con l'esperienza e la naturale vocazione, a creare vocalmente il personaggio tenebroso a lui affidato. Di voce assai notevole si sono dimostrati forniti i due bassi Bonaldo Giaiotti e Antonio Zerbini, e pure il tenore Ferrando Ferrari ha contribuito lodevolmente all'esecuzione. Unica voce femminile in così cupo dramma virile, il soprano Rita Orlandi si è cimentata con la parte destinala in origine all'ausiglielo svedese» |enny Linci. Come spesso accade alle eroine verdiane, è una parie a doppio carattere e con doppie esigenze: di soprano lirico, anzi, drammatico, e di soprano d'agilità. La Malaspina è riuscita felicemente nel primo genere, probabilmente meglio di quanto ci sapesse fare Jenny Lind, e si è difesa onorevolmente in quegli arabeschi e gorgheggi per cui quella andava famosa. Ottimo il contributo del coro, principalmente maschile, che oltre a tutto, a stare al titolo, è il protagonista dell'opera. E infatti Verdi gli ha allidato un paio di pezzi di robusta truculenza, e undobiincodecuscticra una specie di valzerino beffardo di cui è molto difficile stabilire se sia una goffa uscita inopportuna, oppure un autentico colpo di genio nel campo dell'ironia romantica. Molti applausi a tutti gli esecutori, qualche volta perfino a scena aperta, infrangendo l'ascetica severità delle consuetudini radiofoniche. m. m.

Luoghi citati: Firenze, Torino